Amare non è facile ma è semplice come dare un bicchiere d’acqua
XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)
Continua l’insegnamento di Gesù ai suoi discepoli mandati nel mondo ad annunciare il Vangelo. Come lui ha trovato le prime resistenze alla missione affidatagli dal Padre proprio nella sua famiglia di origine, così anche i discepoli suoi sperimenteranno che «i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10, 36). Il primo banco di prova per il discepolo di Gesù è la sua famiglia, lì dove vive l’amore da figlio per i genitori e da genitore per i figli. Il cristiano non può separare il modo di vivere in famiglia e la sua fede personale. Amare padre, madre, figli più di Gesù significa scegliere di prediligere la logica che appartiene alla natura dell’uomo a scapito di quella che Gesù chiama “la croce” segno dell’amore più grande. Gesù propone ai suoi discepoli di seguirlo su una via che non contempla solo l’esecuzione dei dieci comandamenti, ma, direbbe Paolo parlando ai Corinti, su una «via migliore», quella della carità. Nel cuore del decalogo troviamo il comandamento che impone di onorare il padre e la madre perché siano lunghi i giorni della propria vita. Dunque, amare da figlio i genitori significa amare per dovere. Si tratta dell’amore pieno di timore reverenziale. Questo amore non va rinnegato, ma Gesù ci invita ad andare oltre l’onore, il rispetto e l’obbedienza.
Bisogna andare oltre anche l’amore che da genitore si ha per i figli che spesso è ansioso, problematico, direttivo, possessivo, fusionale. L’amore da figlio per i genitori può fermarsi al senso del dovere e quello per i figli da genitori può incepparsi nel desiderio, cioè nei meccanismi delle nostre attese umane. L’amore di genitori e ai figli è tutto sbilanciato sul piano del fare qualcosa per loro. Gesù ci ricorda che amare non è innanzitutto sinonimo di fare, ma accogliere. Come la fede, suggerisce san Paolo ai Romani nasce dall’ascolto, l’accoglienza del vangelo, così la carità germoglia e fruttifica in noi se ci lasciamo raggiungere da Dio. Egli infatti ci viene incontro non per esigere da noi qualcosa ma per donarci la sua stessa vita e renderci fecondi nel bene.
Nessuno è degno di essere cristiano, ma lo diventa nella misura in cui sceglie di non accontentarsi, ma di prendere la croce, cioè di accogliere la parola di Gesù, ovvero la sua proposta di vita e con Lui gradualmente metterla in pratica. Prendere la croce vuol dire amare Dio non come mi sforzo di amare i genitori e i figli, ma come Gesù ama da figlio il Padre e ama noi come figliouli.
Accogliere Gesù nella propria vita comporta l’accettazione di mettersi in gioco, di veder scompaginati i piani, la disponibilità a cambiare prospettiva con la quale di vede il mondo. I missionari, annunciando con la vita la Parola di Dio, non propongono un compromesso al ribasso in cui ognuno delle parti ha qualcosa da guadagnare, ma, quali araldi del Vangelo di Cristo che proclamano, sono portatori dell’appello che Dio rivolge ad ogni uomo alla cui porta Egli bussa. Chi gli apre il cuore per ascoltare assiste ad una trasformazione interiore che fa riformulare la scala dei valori e dei bisogni e fa maturare scelte forti e definitive.
Qualsiasi relazione affettiva e legame che coinvolge i sentimenti va vagliato facendolo passare dal filtro della croce, cioè della logica dell’amore di Dio in modo da essere figli per i genitori e diventare genitori per i figli, tuttavia, non secondo me o secondo loro, ma secondo Dio.
Secondo la logica della croce la vita fiorisce quando la si perde per Gesù, cioè quando si ama con Cristo, per Cristo e in Cristo. Come Lui per amore a noi è morto offrendo sulla croce la sua vita al Padre per liberarci dal peccato, così anche noi, suoi discepoli, donando la nostra insieme con Gesù, «possiamo camminare in una vita nuova, vivere cioè da risorti. Condividendo con Gesù la via della croce, cioè dell’amore totale di sé al Padre, non ci allontaniamo dai nostri affetti, ma rendiamo il legame che ci unisce a loro portatore della stessa grazia che motiva il nostro servizio d’amore.
Il missionario del Vangelo è un profeta che dietro a Gesù impara ad essere figlio e a diventare genitore. Come tale nella sua missione non sperimenta solo la paura e la desolazione causategli dalle persecuzioni e dal male ricevuto, ma gusta anche la consolazione che Dio gli offre attraverso coloro che lo accolgono e si prendono cura di lui. Nella prima lettura troviamo un’applicazione storica dell’insegnamento di Gesù. Il profeta non deve scoraggiarsi difronte ai fallimenti, così come un figlio o un genitore non deve farsi prendere dai sensi di colpa e da frustrazioni umilianti davanti agli insuccessi o al venir meno delle proprie aspettative. Il Signore ci guida tra le desolazioni e le consolazioni. Esse ci vengono, come per il profeta Eliseo, da chi meno ce lo aspettiamo.
Il profeta Eliseo, uomo di Dio, trova accoglienza a casa di una donna illustre ma senza figli. Nasce un rapporto molto bello nel quale ci si preoccupa vicendevolmente l’uno dell’altro. La donna accogliendo in casa sua Eliseo in un certo qual modo lo adotta considerandolo uno di famiglia. L’amicizia e l’ospitalità che Eliso accetta sono veramente gratuiti. La gratuità con la quale l’uomo di Dio è accolto dalla donna, e lui stesso si lascia accogliere, rendono fecondo questo rapporto.
La donna è immagine del missionario/profeta che da una parte non sfrutta la situazione per ottenere qualcosa e dall’altra «prende la sua croce» cioè vive la mancanza di un figlio come l’occasione per amare, trasformando la sua povertà in ricchezza. É sterile, ma lei vive la maternità offrendo al profeta l’ospitalità in maniera semplice e spontanea come il gesto di dare un bicchiere d’acqua. Eliseo non le ricorda il figlio che non ha e non sostituisce la prole che le manca, ma la donna di Sunem porta a compimento la sua indole materna. L’amore non è qualcosa di complicato ma estremamente semplice come dare un bicchiere d’acqua.
Il comportamento della donna anticipa quello di Gesù ed è modello esplicativo per comprendere l’invito che egli rivolge ai discepoli. Prendere la propria croce significa rinunciare a «usare» l’altro per colmare i propri vuoti e fare spazio a Dio perché Lui possa abitare il cuore che, seppur ferito e privo della gioia di possedere quello che si desidera, è riempito da quella di condividere in semplicità quello che si è e ciò che si ha.
Auguro a tutti una serena domenica e vi benedico di cuore!
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]