don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 26 Giugno 2023

455

Chi vuole cambiare il mondo si lasci prima cambiare il cuore

Lunedì della XII settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)

Dal libro della Gènesi Gn 12,1-9

Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore.

In quei giorni, il Signore disse ad Abram:

«Vattene dalla tua terra,

- Pubblicità -

dalla tua parentela

e dalla casa di tuo padre,

verso la terra che io ti indicherò.

- Pubblicità -

Farò di te una grande nazione

e ti benedirò,

renderò grande il tuo nome

e possa tu essere una benedizione.

Benedirò coloro che ti benediranno

e coloro che ti malediranno maledirò,

e in te si diranno benedette

tutte le famiglie della terra».

Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram prese la moglie Sarài e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra di Canaan. Arrivarono nella terra di Canaan e Abram la attraversò fino alla località di Sichem, presso la Quercia di Morè. Nella terra si trovavano allora i Cananei.

Il Signore apparve ad Abram e gli disse: «Alla tua discendenza io darò questa terra». Allora Abram costruì in quel luogo un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a oriente di Betel e piantò la tenda, avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore. Poi Abram levò la tenda per andare ad accamparsi nel Negheb.

La elezione di Abram

Nello scenario in cui la vita è prigioniera della morte (cf. Gen 11, 27-32)risuona perentorio l’ordine di Dio che promette ad Abramo un avvenire di benedizione e di vita. Questo è il programma narrativo della vicenda di Abramo (Gen 12-25). L’accento è posto sulla benedizione (cinque volte).

Se Abramo esce dal suo mondo nel quale si aggira la morte, Dio potrà realizzare per lui e con lui il progetto di benedizione. La benedizione (Gen 1, 22.28) indica una parola del Creatore efficace per lo sviluppo della vita in tutte le sue dimensioni qualitative (fruttificare), quantitative (moltiplicatevi), la diffusione nello spazio (riempite). La benedizione è una questione di vita, dunque, l’unico vero soggetto del benedire è Dio perché solo Lui può darla e può farla crescere. L’uomo che «benedice», riconoscendo che Dio è la fonte della benedizione, la invoca su un’altra persona come i Leviti in Nm 6, 22-27. Benedire significa anche riconoscere che la benedizione di Dio è all’opera come fa Melchisedek con Abram (Gen 14,19) o anche Elisabetta verso Maria in Lc 1, 42. Chi benedice, riconoscendo in atto l’azione di Dio, si «attira» la stessa benedizione.

La chiamata di Abramo è una scelta, una elezione finalizzata non a privilegiare e selezionare (separare), ma a includere tutti nell’unico abbraccio d’amore. Il peccato di Adamo ed Eva e quello di Caino rivelano che cupidigia e gelosia impediscono di accogliere la benedizione di Dio e ostacolano il suo progetto di estenderla all’umanità intera. Perché Dio lo possa benedire Abram deve rompere con tutto ciò che lo imprigiona nella logica della morte. Lasciare la casa paterna significa abbandonare una logica possessiva che conduce alla morte e rovina tutti i progetti, anche i più nobili. Rinunciare a ciò che possiede lo rende libero da ciò da cui potrebbe essere posseduto.

Ad Abramo viene chiesto un gesto di umiltà, accettare la mancanza dicendo no alla cupidigia.

Anche gli altri, se vogliono essere beneficiari della benedizione di Dio, devono rinunciare all’invidia e accettare ciò che Caino invece rifiutava, cioè il fatto che la benedizione non si conquista ma si riceve attraverso colui che Dio «preferisce» o meglio diremmo, «elegge».

La rinuncia alla cupidigia e all’invidia apre la strada alla dinamica di alleanza attraverso cui Dio compie la sua volontà.

L’azione di Dio nei confronti di Abramo si configura come una elezione, una scelta.

Essa è anche un «prendere da» o un «essere presi da». Come la creazione è un essere «tratti dalla terra», così la elezione consiste nell’essere tratti da ciò che appartiene ad un passato che impedisce di vivere. I verbi «scegliere» e «trarre da» (richiamati dal verbo «lasciare») si ritrovano anche nel vangelo di Marco allorquando si narra della chiamata dei discepoli e degli apostoli. I primi discepoli lasciano il posto di lavoro e il padre (Mc 1, 16-20. 2, 13-14); Gesù salito sul monte chiamò quelli che volle e ne scelse dodici (Mc 3, 13-14). La scelta e «l’essere tratti da» è finalizzata ad una trasformazione che faccia degli eletti i mediatori della benedizione di Dio. Essa è nella Parola annunciata e nella guarigione praticata.

+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 7,1-5

Togli prima la trave dal tuo occhio.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi.

Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».

Chi vuole cambiare il mondo si lasci prima cambiare il cuore

La giustizia di Dio, alla quale l’uomo deve tendere, non è amministrata dal giudice che premia il merito o condanna la colpa, ma dal medico che si prende cura del malato. Dio infatti esercita la sua giustizia quando si piega verso l’uomo per sanarlo. Il fine della vera giustizia è la salvezza, cioè la riconciliazione e la comunione. La trave della presunzione causa una cecità più grave rispetto all’effetto di una pagliuzza nell’occhio che sono i difetti comuni a tutti noi.

La trave nell’occhio è dunque l’arroganza con la quale pretendiamo di fare giustizia mettendo in ordine le cose secondo il nostro punto di vista. È come quando entrando in una stanza, in cui ci sono cose che non ci appartengono, la giudichiamo disordinata perché non comprendiamo il principio per il quale esse sono disposte. Gesù stigmatizza il giudizio inteso come imposizione all’altro del proprio ordine delle cose. Chi giudica non s’incarica di capire l’altro, con la sua storia, i suoi principi, la sua visione della vita, i suoi valori, le sue aspirazioni. Chi giudica non s’interessa dell’altro, ma dei suoi fatti e si arroga il diritto di intervenire con valutazioni, giudizi, consigli e soluzioni senza preoccuparsi di ascoltarlo.

Per prendersi cura veramente degli altri è necessario che ci lasciamo curare, soprattutto dal nostro orgoglio, quello che subdolamente si nasconde tra le pieghe di una presunta disponibilità al servizio.

Non di rado confondiamo la giustizia con «il dare lezioni», mentre essa è fondamentalmente l’arte del paziente prendersi cura dell’altro con delicatezza e rispetto.

L’uomo che mantiene la sua trave nell’occhio vede il mondo in bianco e in nero; divide le persone tra cattive (la maggioranza) e buone (una sparuta minoranza). L’ipocrita tende a giudicare gli altri per nascondere le proprie fragilità. Da qui l’invito di Gesù a lasciarsi guarire per poter essere benevolo con se stessi, senza necessariamente trovare delle giustificazioni, e misericordioso con i fratelli in modo da farsi loro compagno nel comune cammino di guarigione.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna