La pagina del vangelo di domenica scorsa si chiudeva con un detto sapienziale di Gesù: non si possono servire due padroni… Dio e la ricchezza. L’evangelista Luca riferisce che i farisei, attaccati al denaro, sbeffeggiavano Gesù che denunciava il loro comportamento ipocrita. Essi si ritenevano giusti davanti agli uomini e, come tali, alimentavano l’idea che la ricchezza fosse segno della benedizione di Dio e, parimenti, la povertà fosse lo stigma della sua maledizione. Questa concezione religiosa distorta allarga il divario tra Dio e gli uomini e la separazione degli uomini tra di loro. La venalità contrasta con la fedeltà, sicché Dio e le persone vengono usati e poi scartati quando non sono più di gradimento. Gesù infatti parla di adulterio, indicando con questo peccato quello d’idolatria e di sfruttamento delle persone.
La parabola è costruita fondamentalmente di due scene che non vanno lette solamente come consecutive sul piano temporale, ma anche come due punti di vista, quello degli uomini e quello di Dio. Poco prima Gesù aveva detto ai farisei: “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole” (v. 15). Infatti nella prima scena è presentata una persona ricca, senza nome, cioè senza una identità definita, e Lazzaro, una persona povera.
L’uomo è presentato in modo molto affascinante per cui gli altri potrebbero commentare: beato lui! Mentre Lazzaro è lo scarto tra gli scartati: è alla porta insieme con l’immondizia e gli fanno compagnia i cani, simbolo degli impuri e gli esclusi, che non competono con lui nell’accaparrarsi il cibo dai rifiuti ma gli leccano le ferite. Il primo ha tante cose, il secondo ha chi lo consola. Il ricco epulone si comporta in maniera opposta all’amministratore della parabola di domenica scorsa che invece si “converte” a guadagnare l’amicizia dei poveri piuttosto che accumulare per sé ricchezze che poi dovrà lasciare.
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La prima scena descrive lo sfarzo, l’opulenza e l’allegria del ricco dentro casa sua e la miseria, condivisa con i cani, di Lazzaro che è fuori. Questo è lo sguardo dei farisei che separano i “benedetti”, che stanno dentro la casa di Dio, partecipano a solenni riti con paramenti sontuosi e offrono sacrifici di comunione che culminano in lauti banchetti, e i Lazzaro che sono fuori, gli esclusi, i rifiuti.
La descrizione del ricco epulone indugia sul vestito e sul cibo. Il ricco non ha nome perché la sua identità è nascosta dai titoli, riconoscimenti e presunti meriti. I quotidiani lauti banchetti dicono l’insaziabilità nella ricerca del piacere. Non si mangia per nutrirsi ma per gonfiarsi. La ricerca ossessiva dell’approvazione degli altri e del piacere porta ad un drammatico svuotamento interiore e isolamento sociale.
La parabola del ricco epulone e di Lazzaro passa dal punto dell’osservazione umana in cui non si esprime un giudizio ma si descrive la realtà, al punto di vista di Dio. Egli fa giustizia ai poveri, come annuncia Amos nella prima lettura, e dona loro quella ricompensa che è riservata a tutti coloro che gli rimangono fedeli anche nei momenti della prova. Non c’è la condanna ma solo il dono che viene accolto da chi si è fatto accogliente che si perde per chi invece ha scelto di essere refrattario.
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Arriva per tutti il momento della morte che rivela il modo con cui Dio vede le cose. Non si tratta di una ricompensa o punizione che Dio dà, quanto invece la rivelazione di ciò che l’uomo ha scelto di essere. Il ricco è solo, vuoto, mancante, mentre Lazzaro è con il padre Abramo e partecipa con lui alla pace, cioè alla pienezza del bene. La morte accomuna tutti e al contempo essa sancisce definitivamente le separazioni che abbiamo posto durante la vita. Se l’attaccamento ai beni terreni ci ha resi indifferenti, chiusi in noi stessi, preferendo essi alle persone, soprattutto a quelle più vicine, la morte viene a rendere definitiva la scelta fatta.
Il dialogo tra Abramo e il ricco è fatto di due preghiere in cui si chiede l’aiuto di Lazzaro affinché allevi le sue sofferenze e vada ad ammonire i suoi cinque fratelli rivelando loro le conseguenze di una vita vissuta inutilmente. Entrambe le suppliche vengono respinte perché se le mie scelte creano una distanza dagli altri, non posso chiedere che siano questi a venire da me. Se innalzo muri e rompo i ponti come posso chiedere che Dio e gli altri mi aiutino? Se credo che la vera benedizione consista nell’ avere a disposizione tanti beni, se ho preferito accumulare titoli e onori per dimostrare a me stesso e agli altri quanto valgo, ho già ricevuto la mia ricompensa, che però svanisce ben presto lasciandomi nei tormenti della solitudine. Invece se nella povertà trovo comunque il modo di condividere e fare comunione, allora sono consolato e il mio cuore è nella gioia.
Anche la seconda richiesta viene respinta perché la Legge e i profeti, cioè la Parola di Dio, già contiene l’invito a scegliere se imboccare la via dell’obbedienza a Dio per la vita o dell’indifferenza per la morte.
Si potrebbe obiettare che il ricco non ha fatto nulla di male per andare agli inferi e Lazzaro non sembra abbia fatto qualcosa di particolarmente buono per meritare il paradiso. Infatti quello che viene descritto è lo stile di vita condotto. Quello del ricco è dipendente dal piacere, quello di Lazzaro è caratterizzato dalla mite attesa dell’aiuto di Dio. L’attaccamento alla ricchezza porta a bruciare di avidità e a chiudersi nell’indifferenza, mentre vivere le prove della vita confidando in Dio e aprendosi alla comunione fraterna garantisce la vera benedizione che è la vita eterna.
Noi che ascoltiamo la Parola di Dio siamo ancora in tempo perché possiamo assumere il Suo punto di vista che è quello più vero. Lasciamoci scuotere dalla Parola di Dio perché, iniziando la rivoluzione a partire da noi stessi, possiamo renderci conto di quanto sia vera e bella la promessa di Gesù: “Vado a prepararvi un posto perché dove sono io siate anche voi”.
Il paradiso non si conquista a scapito degli altri, ma solamente con gli altri perché il paradiso non è il traguardo da tagliare ma una festa di famiglia da preparare e da vivere come festeggiati.
L’inutile elemosina e la giusta misericordia
La parabola ha come soggetto principale un uomo ricco che conduceva una vita comoda e agiata. Un uomo che tutti avrebbero potuto dire fortunato o anche benedetto. Alla sua porta c’era un povero di nome Lazzaro, un misero mendicante, abbandonato da tutti, tranne dai cani che gli leccavano le ferite, che tutti avrebbero definito un uomo sfortunato. La morte accomuna i due uomini che la «sorte», così avrebbe potuto pensare qualcuno, aveva differenziato assegnando a uno i suoi beni e all’altro i suoi mali. Se la storia si fermasse qui sarebbe legittima la domanda: perché esiste l’ingiustizia, per cui c’è chi ha tanto e chi ha nulla, perché la vita è così iniqua che riserva la fortuna ad alcuni e la disgrazia ad altri?
In realtà la storia continua perché la morte ribalta la sorte per cui il povero Lazzaro entra ricco in cielo e il ricco si ritrova in mezzo ai tormenti degli inferi. Lì si ricorda di Lazzaro, che in vita aveva sempre ignorato, e gli chiede aiuto per alleviare le sue sofferenze. La risposta di Abramo rende esplicito il peccato del ricco. L’indifferenza crea un abisso incolmabile, facendo della differenza una distanza abissale. L’uomo ricco più che domandarsi come godere dei beni ricevuti, avrebbe dovuto interrogarsi su come impiegarli per il bene anche degli altri. La vita diventa ingiusta quando è goduta solo per sé stessi.
Se il ricco avesse rinunciato a qualche piacere avrebbe sentito un po’ della fame di Lazzaro e se avesse tolto qualcosa da sé avrebbe accorciato le distanze dal fratello. La morte ristabilisce la giustizia negata dagli uomini. Per cui il povero viene saziato dei beni che gli sono stati rifiutati e il ricco perde la vita che invece ha preteso di godere solo per sé.
Le briciole che cadono dalla tavola del ricco sono l’inutile elemosina di quelle persone che danno agli altri gli scarti, senza lasciarsi ferire dal dolore degli altri.
La carità è il compendio della Parola di Dio e della giustizia. Ascoltarla significa praticare la misericordia, ovvero rendere il cuore misero per fare proprio il dolore del fratello e condividerlo offrendo ciò che si ha e ciò che si è.
Signore Gesù, tu che ti sei fatto povero per arricchirci e hai condiviso la fraternità per condurci tutti in Paradiso, scuotimi dal torpore dell’indifferenza e rendi il mio cuore sensibile al dolore del misero. Il mio occhio non si abitui a vedere scene di povertà ma illuminato dalla tua Parola sia attento a cogliere anche quelle nascoste per provarne compassione. Il mio orecchio non si stanchi di ascoltare il grido del misero ma con l’aiuto del tuo Spirito il mio cuore possa aprirsi ad accogliere il suo anelito e la mia voce si unisca alla sua per invocare giustizia. Le mie spalle non si alzino in segno di rassegnazione ma ti chiedo di renderle più forti perché possa farmi carico del peso dei miei fratelli più deboli e soli.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]