La san(t)a competizione – SAN GIACOMO
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 2Cor 4,7-15
Portiamo nel nostro corpo la morte di Gesù.
Fratelli, noi abbiamo un tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita.
Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: «Ho creduto, perciò ho parlato», anche noi crediamo e perciò parliamo, convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.
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Debolezza e forza
S. Paolo utilizza l’immagine del vaso di creta per parlare del corpo, segno della sua dimensione umana. La visione antropologica dell’apostolo, sebbene risenta della cultura greca, è fondamentalmente ispirata dalla tradizione biblica. La terra cotta di cui erano fatti gli utensili è materiale fragile e resistente al tempo stesso. Paolo riconosce che la fragilità della natura umana non resisterebbe ai colpi inferti da forze esterne se non fosse per la potenza di Dio che la abita.
Il sacrificio di Cristo sulla croce ha sprigionato una potenza tale che è riuscita a distruggere la morte per far rinascere la vita. Mediante l’eucaristia la potenza della vita di Dio rilascia luce e forza grazie alle quali il credente resiste nella lotta contro il male e diventa testimone-narratore della misericordia di Dio che cambia i cuori.
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+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 20,20-28
Il mio calice, lo berrete.
In quel tempo, si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
La san(t)a competizione
Gesù aveva parlato del Regno dei cieli e gli apostoli lo hanno interpretato secondo l’ottica del mondo in cui i governanti delle nazioni dominano e i capi opprimono. Il fascino del potere ha sempre esercitato una forte attrazione sul cuore degli uomini e anche su quello dei discepoli di Cristo i quali sono tentati di “mondanizzare” il vangelo invece di evangelizzare il mondo. Le parole della mamma di Giacomo e Giovanni rivelano quanto sia radicata nell’animo umano, anche della gente semplice e povera, l’ambizione di raggiungere posti di comando per avere sudditi sui quali comandare e dai quali ricevere servigi. Fin quando il cuore è pieno della sapienza del mondo non è possibile partecipare alla forma di governo ed esercitare il potere che Gesù propone.
Il calice da bere non sono i sacrifici e le rinunce, né tantomeno la lotta fino all’ultimo sangue, per raggiungere le vette del successo, della fama e della ricchezza, ma è il cammino interiore di purificazione del cuore da ogni forma di cupidigia, avidità e di rinuncia alla logica del potere inteso come gestione delle persone e delle cose per un proprio interesse.
Gesù chiarisce che non sta a lui concedere benefici e privilegi, ma di invitare tutti a seguirlo sulla via della croce attraverso la quale cambiare la prospettiva nella vita. Per poter partecipare alla gloria di Gesù e sedere insieme a lui nel suo regno è necessario seguirlo sulla via del servizio inteso come dono della propria vita. È propriamente questa la vetta della gloria per raggiungere la quale bisogna abbandonare strada facendo le zavorre che appesantiscono il cuore e offuscano la ragione.
Il mondo alimenta le manie di grandezza e falsa le unità di misura perché l’orgoglioso, pur essendo piccolo, vorrebbe ergersi e imporsi da solo sugli altri, mentre l’umile, essendo magnanimo, tende a farsi piccolo per raggiungere anche l’ultimo dei fratelli e amarlo. L’arrampicatore sociale ed ecclesiale non si dà pace se non ha raggiunto la visibilità e gli onori, magari denigrando e squalificando gli altri, mentre il discepolo di Cristo non può dirsi contento se non ha donato il suo tempo, le sue energie, i suoi carismi, le sue competenze e le sue capacità per far sentire ogni persona incontrata amata. I potenti di questo mondo tendono a far sentire gli altri inferiori e dipendenti, i cristiani invece, incontrando i fratelli e le sorelle nel mondo, devono comunicare loro l’amicizia di Dio che detronizza i potenti e innalza gli umili, sazia di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Nel regno di Dio se c’è un primato da raggiungere questo è certamente quello del servizio e se c’è una competizione questa deve avvenire nell’ambito della stima e della comunione fraterna.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera
Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna“