Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]
Dall’umiliazione all’umiltà
Il Natale del Signore è la prima delle grandi feste che ritmano l’anno liturgico che ruota attorno all’ evento della Pasqua. Non è un caso che la liturgia riserva a queste due solennità la veglia notturna in cui gioca un ruolo importante il segno della luce che splende e rischiara le tenebre.
Siamo un popolo in cammino ma immerso nel buio dell’incertezza e della paura. Per quanto possano darci speranza le tecniche scientifiche, che sono pure a servizio del bene dell’uomo, sentiamo di essere ancora tra le nebbie della precarietà e della debolezza che vela di tristezza anche i momenti di festa che vorremmo vivere nella pace e nella serenità.
Il vangelo parla di un decreto dell’imperatore che ordinava un censimento. Per questo Giuseppe, in obbedienza al comando imperiale compie il viaggio verso Betlemme, la città in cui era nato Davide. Si tratta in un certo senso di un ritorno a casa, alle proprie origini. Lì a Betlemme un giorno il profeta Samuele era stato inviato da Dio a casa di Iesse per consacrare re uno dei suoi figli. Samuele giungendo in quella casa aveva iniziato a cercare tra gli uomini più grandi e più forti, ma Dio riorienta la ricerca tra i più piccoli perché il Signore non guarda l’apparenza ma il cuore. Fu dunque chiamato il più piccolo dei figli di Iesse, Davide, che era con i pastori a pascolare il gregge. Davide da pastore di pecore divenne pastore di un popolo. Dall’umiliazione all’umiltà. Facile immaginare che davanti ai primi segni di gravidanza di Maria si siano scatenate le critiche e i pettegolezzi degli abitanti di Nazaret. Forse anche questo avrà spinto i novelli sposi a lasciare il villaggio e andare a Betlemme. S’intrecciano esigenze che potremmo definire sociali con quelle più strettamente personali.
L’imposizione delle regole, siano esse finalizzate a prevenire il contagio, oppure quelle che regolano il vivere sociale, anche se possono apparire ingiuste, sono l’occasione ieri come oggi per fare del nostro cammino un pellegrinaggio dell’umiltà. Anche noi possiamo sentire tutto il peso delle frustrazioni, dei limiti, delle attese deluse che, se assolutizzate, ci portano a vagare confusi e disorientati. L’attaccamento alle cose e uno stile di vita possessivo e controllistico fanno della paura la nostra guida. Il risultato è l’aggressività verbale, fisica e psichica. Stiamo male perché viviamo male l’umiliazione e affidiamo la gestione del nostro malessere ai pensieri negativi che generano giudizio e pessimismo.
Nella notte del dolore e dell’incertezza ci viene incontro la luce del vangelo che splende al di sopra dei nostri ragionamenti arzigogolati. È necessario distrarre lo sguardo dal nostro io che piange e si lamenta contro gli altri per rivolgerlo verso l’alto e verso l’altro. L’obbedienza non sarà mera esecuzione di ordini ma un cammino nuovo guidato dalla parola di Dio che dà la direzione giusta ai nostri passi.
La meta è Betlemme, la casa del pane. Giuseppe e Maria non obbediscono solo ad un comando imperiale, ma realizzano il volere di Dio, quello di fare casa con noi. Loro non sono pienamente consapevoli, come non lo siamo neanche noi dei progetti divini, ma nell’obbedienza agli uomini si concretizza anche la volontà di Dio. La ribellione, la mormorazione, anche se sono giustificate da una motivazione di giustizia non portano alla pace, anzi, alimentano la guerra. Invece di concentrarci su ciò che non va negli altri e nei loro modi di comportarsi, rimanendo ripiegati su noi stessi, dovremmo alzare gli occhi al cielo e domandarci cosa fare per non replicare e alimentare il male subito.
Maria e Giuseppe pur essendo di casa a Betlemme non vi trovano posto in un alloggio familiare. Non si perdono d’animo e fanno di una grotta adibita a stalla per gli animali la loro dimora familiare. Il centro di questa casa diventa la mangiatoia perché in essa è deposto il bambino appena nato e avvolto in fasce. Maria e Giuseppe ci insegnano a celebrare il Natale con atteggiamenti di docile obbedienza, concreta attenzione al più piccolo. Essi, infatti non cercano la comodità per sé stessi, ma creano uno spazio per accogliere e far nascere il loro bambino. Non perdono tempo a giudicare, a lamentarsi, a rimbrottare o rinfacciare, ma accolgono la disponibilità di chi, rimanendo nell’anonimato, offre loro uno spazio della propria casa, il luogo meno nobile ma che è reso umano dalla loro presenza e soprattutto da quella di Gesù, dalla loro premura delicatezza e dalla tenera debolezza del bambino. I gesti ordinari e silenziosi di Maria e Giuseppe rendono umano ciò che è bestiale. Adattarsi non significa rinunciare ai propri sogni o ai desideri più belli ma iniziare a realizzarli partendo dall’essenziale e accettando di fare a meno del superfluo.
Ecco, dunque, la meta del cammino di Giuseppe e Maria, non solo Betlemme, non solo un alloggio, ma una mangiatoia. Il richiamo insistente della mangiatoia ci porta a pensare al mangiare che da preoccupazione diventa occasione, da tempo atteso a tempo vissuto. In tempo di crisi quello che diamo per scontato non lo è più. Nell’abbondanza non ci preoccupiamo cosa mangiare e cosa dare da mangiare ai figli; nella società dell’opulenza, in cui si confonde il benessere con il benavere, l’attesa e l’attenzione è sui beni di consumo, su oggetti che ci danno solo l’illusione di essere al passo dei tempi quando invece rincorriamo miraggi inconsistenti. In molte case questa domanda è ora drammaticamente urgente. Essa potrà essere accolta nella misura in cui facendoci solidali con i fratelli, sentiremo nostro il loro bisogno, senza giudicarli. Così la domanda che germoglia da un cuore misericordioso è: cosa posso preparare per loro, come posso prepararmi per dare loro da mangiare. In molti casi il nutrimento essenziale è la comprensione benevola con cui mi approccio ai fratelli e alle sorelle proprio perchè cosciente dei loro limiti e anche delle loro colpe.
È la tenerezza che ci porta ad adattarci e ad abitare anche gli spazi che a noi appaiono inospitali perché i nostri occhi cercano quella perfezione che non troveremo mai fuori di noi ma solamente in Dio. Questi luoghi sono le relazioni fraterne che rimarranno inaccessibili senza che la grazia di Dio le illumini. La luce della Parola di Dio permette di vedere nell’umiliazione l’Umiltà, nel niente il Tutto, nel dramma la Salvezza, nella mancanza di beni la pienezza del Bene.
Il Bambino nella mangiatoia è la risposta di Dio all’uomo che spesso si riempie di aria ma non è mai sazio. Dio scende verso l’uomo non per dargli il pane materiale ma per dare sé stesso da mangiare; alimentati dal Suo Spirito siamo riempiti di Lui, del Suo Amore. Chi si sazia veramente al banchetto di Dio non se ne sta comodo a fare la siesta esulandosi dagli altri o chiudendosi in piccoli circoli, ma si sente spinto a donare a tutti con gioia quello che lui stesso ha ricevuto gratuitamente. Strada facendo s’impara alla scuola di Gesù e in compagnia dei santi, come Maria e Giuseppe, non solo a condividere quello che si ha ma a darsi all’altro per amore in tutto ciò che si fa.
Natale sia per noi il tempo del cammino verso Betlemme, ma ancor di più verso la mangiatoia, la mensa della Parola e dell’Eucaristia, sulla quale Dio si fa gustare e vedere quanto è buono e da lì partire per farsi pane da spezzare con tutti.
Auguro a tutti un santo Natale e vi benedico di cuore!