Dalla casa di Marta e Maria si passa ad un luogo non meglio precisato, ma che intuiamo essere adatto per la preghiera personale di Gesù. L’uomo della comunicazione con gli uomini, in parole e azioni, è spesso presentato come uomo in contatto con Dio nella preghiera. Per chi l’osserva, come fa uno dei suoi discepoli, la preghiera di Gesù appare il tratto più caratteristico della sua personalità perché in essa si coglie il segreto da cui ha origine la missione del Signore. Nella pericope precedente Maria è presentata da Gesù come il modello del discepolo che sceglie la parte più buona mettendo la fede a fondamento della relazione con lui. La fede nasce e si sviluppa nell’ambito della dinamica dell’ascolto della Parola di Dio a cui rispondere con il servizio al prossimo. L’esortazione è rivolta alla sorella Marta che, distolta dai molti servizi e indispettita del fatto di essere rimasta sola a servire, chiede a Gesù di farsi portavoce presso la sorella del suo volere. Quella di Marta, a modo suo, è pure una preghiera, seppure di lamentazione, ma l’atteggiamento di Maria è la condizione affinché Gesù possa insegnare il suo segreto.
La fede, che nasce dall’accoglienza dell’annuncio del Vangelo, fa germogliare i semi della Parola innanzitutto mediante la preghiera che è anche la prima forma di evangelizzazione. Infatti, Gesù evangelizza a partire dalla preghiera quale esperienza d’incontro intimo e personale con il Padre in cui s’intrecciano ascolto e risposta alla sua Parola che interpella. Lo testimoniano gli eventi del battesimo, delle tentazioni e gli inizi della predicazione a Nazaret. La Parola di Dio viene annunciata anche senza proferire parola, come la predicazione della creazione descritta nel Sal 8. La preghiera di Gesù, nella misura in cui è colta coincidente con il suo modo di essere in relazione con Dio, suscita un forte interesse come il profumo emanato da qualcosa che diventa attrattivo per chi ne gusta la fragranza. Dalla preghiera si sprigiona il profumo della santità, dell’amore che unisce il Padre e il Figlio in un solo volere e in unico operare.
La richiesta del discepolo non nasce dalla curiosità ma dalla domanda suscitata nel cuore dall’esempio di Gesù che genera nel medesimo tempo il desiderio di condivisione. Insegnare non significa semplicemente trasmettere delle nozioni ma partecipare agli altri quello stesso spirito con il quale si prega. Se, infatti, la preghiera fosse solo una funzione non eserciterebbe alcun desiderio se non quello dell’emulazione che si fermerebbe al formalismo esteriore, senza coinvolgere la dimensione più profonda dell’essere, cioè la spiritualità. È proprio nella parte più profonda e più nobile dell’essere che è custodito l’anelito dell’uomo di vivere da figlio amato e da fratello amante. Gesù insegna a pregare aprendo il suo cuore ai discepoli e offrendo agli uomini che lo desiderano l’opportunità di unirsi a lui per incontrare e dialogare con Dio Padre.
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L’ammaestramento di Gesù si sviluppa in tre momenti. Nel primo fa dono delle parole per pregare, nel secondo, facendo ricorso ad una piccola parabola, rivela che il successo della preghiera sta nella sua perseveranza e, infine, ricorda che Dio è più buono degli uomini e che dà solo cose buone, anzi la migliore, lo Spirito Santo.
Gesù, più che offrire una formula che possa caratterizzare la preghiera dei discepoli, suggerisce la postura spirituale davanti a Dio alla cui presenza si sta non come servi funzionari del sacro in attesa di ricevere i comandi da attuare, ma come figli che rivolgono al Padre le proprie richieste. La versione della preghiera che troviamo nel vangelo di Luca è più corta ed essenziale anche se rimane lo stesso impianto di Matteo. Dopo l’invocazione rivolta la Padre seguono due domande riguardanti il Tu di Dio e tre petizioni relative al Noi degli oranti. L’appellativo «Padre» esclude ogni barriera nazionalistica e strumentalizzazione divisiva riconoscendo a Dio un’identità dal valore universale, dal cui amore nessuno può sentirsi escluso.
Al Padre innanzitutto viene riconosciuta la preminenza propria del monarca, il cui primo compito è quello di agire. Infatti, le prime due richieste riguardano la santificazione del suo Nome e la realizzazione del suo Regno. Nella prima delle due petizioni si chiede a Dio di rivelarsi a tutti gli uomini nella sua santità, quale Padre misericordioso e premuroso, soprattutto verso i più poveri («Padre degli orfani e difensore delle vedove»); nella seconda l’accento è posto sull’esercizio della giustizia quale forma più alta di regalità. Riassumendo si potrebbe dire che le prime due richieste tradiscono un forte senso della realtà per cui è forte il desiderio che la Parola di Dio diventi evento concreto e non rimanga una promessa. Le ultime tre richieste riguardano il Noi della comunità chiamando in causa la responsabilità storica della Chiesa. Se è vero che si riconosce a Dio il ruolo di capofila perché è il Capofamiglia, è altrettanto vero che chi prega risponde al suo appello con responsabilità chiedendo l’aiuto necessario perché possa fare la sua parte nel grande gioco della Storia della salvezza.
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Le tre petizioni finali segnalano il bisogno dell’orante che coincide con il desiderio del cuore. Non si chiede una risposta di Dio ai bisogni materiali ma il suo aiuto affinché si possa essere corresponsabili dell’edificazione del Regno. Il pane, il perdono e l’assistenza divina sono le tre richieste nelle quali vengono riassunte le esigenze spirituali del discepolo impegnato nel mondo ad annunciare il Vangelo innanzitutto con la sua vita. Il «pane nostro, (tradotto letteralmente) quello dalla sostanza superiore», richiamato nella parabola dell’amico invadente, è lo Spirito Santo che il Padre buono concede ai figli che si dispongono a riceverlo con la preghiera. Lo Spirito Santo è il pane della consolazione e del pellegrino nella fede. Il Padre spezza il pane del perdono per riconciliare i suoi figli tra loro. Con il pane viene comunicato il gusto dell’essenziale, dell’amore fraterno che è in cima ai desideri dei discepoli di Gesù. Il pane della fraternità è un dono e una conquista. Nel cammino frequentemente si cade e senza l’aiuto della provvidenza divina si sprofonda nell’abisso della disperazione. Sebbene Dio ci lasci liberi, tuttavia, riconosciamo che la libertà è un’arma che può ritorcersi contro di noi. Per questo chiediamo al Padre di non abbandonarci fino in fondo (cf. Dan 3, 34-36), ma di accompagnarci sempre in modo da essere vicino e pronto ad aiutarci nel momento del bisogno.
L’insegnamento continua con una piccola parabola e un’allegoria che incorniciano un’esortazione a perseverare nella preghiera soprattutto nella tentazione. La parabola assicura che l’insistenza nella richiesta deve valicare i confini di quella forma di amicizia che si basa semplicemente sui meriti o sullo scambio di favori. La preghiera scomoda Dio da quella falsa idea di giustizia che lo relega, alla stregua di un prigioniero, nelle maglie strette della Legge. La preghiera invadente è coraggiosa tanto quanto lo è l’ardire dell’orante che invoca Dio mosso, non tanto dalla disperazione di chi non ha nulla da perdere perché ha già perso tutto, ma dalla speranza di un figlio che non si arrende davanti al silenzio del Padre. Modello di questa santa invadenza è Abramo che intercede per gli abitanti di due città straniere ma nelle quali egli riconosce che vi abitano uomini fratelli perché essi, benché lo rifiutino, sono figli dell’unico Dio.
Abramo, pur non associandosi nel peccato agli abitanti di Sodoma e Gomorra, si fa loro portavoce per chiedere il perdono. Nella supplica di Abramo scorgiamo un’anticipazione della preghiera di Gesù sulla croce da dove intercede a favore dei suoi uccisori affinché siano perdonati. La preghiera non è l’espressione di una comunità di perfetti ma di uomini e donne che trovano nel sacrificio di Cristo e nella sua preghiera l’interpretazione più alta del loro anelito di salvezza. Quando si prega con le stesse parole di Gesù, non solamente Lui si fa presente raccogliendo tutte le voci in unica supplica, ma anche i cristiani, sebbene sparsi nel mondo, diventano fratelli concordi e unanimi nell’orazione e nel vincolo della carità. Gesù sulla croce non ha chiesto di essere risparmiato dalla morte ma di non essere abbandonato. Lo ha fatto gridando, con quella invadenza che non mortifica l’altro ma spalanca le porte della vita nuova. Lo ricorda la Lettera agli Ebrei quando afferma: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5.7).
La preghiera, porta di accesso al segreto di Dio
Come già l’insegnamento dato da Gesù a Marta sottolineava, la preghiera è la parte migliore che un discepolo può assimilare da Lui. Più che fare tante cose, conta la relazione personale perché, in fondo, la vita si gioca sulle questioni affettive che lasciano il segno nel cuore prima ancora che sulla pelle. La fede cristiana non si basa su regole da rispettare o su principi filosofici, ma trova nella relazione dialogica intima e familiare con Dio, la preghiera appunto, il suo cuore incandescente. Tutto parte dalla preghiera e ogni cosa trova in essa il suo compimento. Lo aveva compreso molto bene Santa Madre Teresa di Calcutta, mirabile sintesi del servizio di Marta e della contemplazione di Maria.
La preghiera all’alba e al tramonto incorniciava per lei – e tuttora per chi segue il suo carisma evangelico – una giornata dinamica nel servizio. La carità fraterna si alimenta mediante la preghiera che non è estraniamento dal mondo ma è il modo con il quale entrare nel mondo con lo stesso stile di Dio che ascolta rispettosamente e delicatamente si fa prossimo all’uomo. Con la preghiera si entra in contatto con Dio di cui, più che comprenderne chiaramente il progetto, si assimilano i sentimenti per i quali Egli si inginocchia davanti all’uomo. Al contempo con la preghiera si genera anche la comunione fraterna che nessuna forma umana di alleanza o contratto potrebbe garantire. La preghiera è il segreto della fedeltà nell’amore perché è lì, nell’incontro con il Tu del Padre insieme al Noi della famiglia/comunità, che si sciolgono i nodi della paura, si diradano le nebbie dell’indecisione, si allentano le catene delle ansie, si viene alimentati del pane della speranza, si è liberati dai vincoli del rancore, si viene unti per sfuggire alla presa del tentatore.
Nella preghiera siamo presi per mano e introdotti nella parte più sacra della nostra vita dove il Padre ci attende per stare con noi. A pregare s’impara pregando perché è amando che s’impara ad amare. Chi persevera nella preghiera con coraggio e determinazione, mantenendo lo sguardo su Gesù, cresce nella fedeltà e matura nel servizio. Nella preghiera facciamo la stessa esperienza di Maria, sorella di Marta, che stando ai piedi di Gesù ascolta la sua Parola e dell’altra Maria, la madre del Signore che, rimanendo salda nella fede sotto la croce riceve lo Spirito Santo, l’eredità più bella, la parte migliore, che la costituisce madre nostra, Madre della Chiesa. La preghiera che sgorga dal cuore di figlio non lascia indifferente il cuore del Padre. Da Gesù impariamo a rivolgerci a Dio dando voce alla sua Parola che ha seminato nel nostro cuore. Imparare a pregare significa anche imparare a dialogare tra noi che, in ultima analisi, vuol dire acquisire l’arte più bella del vivere.
Signore Gesù, Maestro di preghiera, donaci lo Spirito affinché impariamo a pregare con i tuoi sentimenti di Figlio amato del Padre per intessere con Lui un dialogo sempre più intimo e familiare in cui trovare conforto nel dubbio, coraggio nella prova, sapienza nelle scelte, prudenza nei discorsi, lungimiranza nei progetti, umanità nei rapporti personali. Tu, missionario della Carità, che ti fai fratello partecipe delle umane povertà, intercessore per il perdono dei nostri peccati e sei l’inviato dal Cielo per soccorrerci nella nostra miseria, aiutaci a rivolgerci a Dio confidando nella sua paterna giustizia e nella sua materna benevolenza. Fa che stanchi e affannati dalle mille fatiche della vita, assediati da paure e preoccupazioni, possiamo alzare gli occhi al cielo ed elevare i nostri cuori per offrire con gioia il sacrificio della lode, innalzare con speranza il grido della supplica, invocare umilmente il perdono e la pace.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]