Se ami non dire a Dio “dammi ciò che mi spetta” ma “dimmi ciò che hai nel cuore”
Domenica scorsa la parabola, che vedeva come protagonisti una vedova petulante nel chiedere giustizia e il giudice disonesto che l’esaudisce per non essere ulteriormente infastidito, offriva l’occasione di verificare i tempi, i modi e i contenuti della preghiera cristiana. Come può dirsi cristiano colui che non prega? La preghiera cristiana, tuttavia, non si riduce a formule, ma è sempre un’esperienza corale e comunionale, anche se fatta nella solitudine. Anzi, proprio quando si lotta con fatica per non soccombere sotto il peso delle prove che la vita ci riserva e sentiamo il vuoto dentro e fuori di noi, la preghiera ci “connette” con Dio e con i fratelli.
La prima lettura sembra confermare quello che Gesù ha detto del Padre suo mettendolo a confronto con il ragionamento del giudice disonesto. Dio è Padre di tutti ed è giudice giusto, non perché ragiona secondo la legge davanti alla quale le persone si distinguono in due categorie, i giusti e i peccatori, ma in quanto imparziale nell’offrire a tutti il dono della salvezza. Colui che fa sorgere il sole e che fa piovere sui cattivi e suoi buoni, offre suo Figlio per tutti, cattivi e buoni. Nell’ultima cena Gesù inaugura la nuova ed eterna alleanza sancita dal dono del suo corpo e dall’effusione del suo sangue per la remissione di tutti i peccati, i peccati di tutti e, finalmente, il perdono a tutti (i peccatori). In realtà, se davanti alla legge siamo tutti uguali perché tutti peccatori, parimenti lo siamo davanti a Dio perché tutti suoi figli.
Tuttavia, la conclusione che trae Gesù dalla parabola, in cui c’è un fariseo impettito che cerca di presentarsi come distinto dagli altri peccatori e un pubblicano che si rivolge umilmente a Dio chiedendogli di amarlo così com’è, mette l’accento sull’effetto della loro preghiera. Infatti, solo uno dei due torna a casa giustificato, cioè santificato.
- Pubblicità -
La giustificazione non è né un premio per i perfetti, né un “colpo di spugna” sui peccati. Si tratta di un miracolo, cioè di un’opera che solo Dio può compiere, ma ad una condizione: la fede dell’uomo. Il miracolo consiste nella creazione, meglio diremmo, nella ri-creazione dell’uomo che docilmente si pone nelle mani di Dio perché Lui lo plasmi a Sua immagine e somiglianza.
L’apostolo Paolo, riprendendo l’insegnamento di Gesù contenuto in questa parabola, ripete che l’uomo non è reso giusto dalle opere della legge, ma dalla fede che permette a Dio di cambiare il suo cuore. Il fariseo della parabola è come Giobbe del quale si dice che offriva i sacrifici di espiazione anche per i suoi figli che, magari distratti da altre cose, avrebbero potuto urtare la sensibilità di Dio e peccare. Giobbe era (o presumeva di essere) talmente giusto da sostituirsi nelle pratiche penitenziali ai suoi figli, così come il fariseo digiuna anche per chi non lo fa e paga la tassa per i poveri anche per quei commercianti che non lo fanno.
Questo tipo di giustizia non è quella di Dio ed è molto precaria, tanto che, come racconta il libro di Giobbe, quando la fortuna gli volta le spalle, la fede (o presunta tale) entra in una profonda crisi.
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Colui che nell’euforia prega (?) vantandosi e al tempo stesso distinguendosi dagli altri, povera massa dannata, veste un impermeabile che impedisce veramente alla grazia di Dio di penetrare nel cuore. Alla base c’è una mentalità per la quale si confonde la volontà di Dio con un cieco destino e la Sua grazia come fortuna o come proprio merito.
La postura, il gesto e le parole del pubblicano rivelano che il suo rapporto con Dio non è come quello che creditore nei confronti del debitore, fosse anche un operaio nei confronti del suo padrone. La preghiera del fariseo assomiglia a quelle liturgie tanto pompose quanto inutili perché sovraccariche di ritualità insignificanti e retoriche. Quella del pubblicano è una preghiera semplice ma che è come freccia che raggiunge la volta del cielo superando le nubi. Il fariseo si nasconde dietro i suoi meriti mentre il pubblicano si mette a nudo. Il fariseo vuole dimostrare quanto vale, il pubblicano si mostra a Dio per quello che è.
Gli occhi bassi indicano la consapevolezza della propria fragilità; il gesto di battere il petto richiama l’opera dell’agricoltore che solca il terreno con l’aratro prima di seminare e del carpentiere che rompe la pietra prima di poggiare sulla roccia le fondamenta della nuova costruzione. Battersi il petto significa sentire il dolore del peccato, la sofferenza della distanza e della separazione da Dio e dai fratelli. Il pentimento non è un giudizio di colpevolezza ma è umile richiesta di aiuto a Dio, il Salvatore.
Il pubblicano, a differenza del fariseo, nella preghiera si fa povero, cioè crea spazio nel suo cuore sgomberandolo sia dalla presunzione, che colpevolizza gli altri, sia dai sensi di colpa che lo inchioderebbero ai suoi peccati.
Il giusto non è colui che, come il fariseo, presentandosi con le “carte in regola” davanti a Dio, pensa di essere migliore e di raggiungere da solo il traguardo della vita eterna, magari anche compiacendosi che gli altri siano esclusi. L’uomo giusto non solamente prega, ma fa della sua vita una preghiera nella quale fare spazio per accogliere il dono di Dio dentro di sé e ospitare il fratello così com’è.
Le parole di Paolo a Timoteo sono la testimonianza di un uomo che ha fatto della preghiera il tempio nel quale lasciarsi trasformare dalla misericordia di Dio. Colui che per difendere la dottrina non esitava a perseguitare gli altri fratelli e sorelle, per grazia di Dio è diventato mite combattente della buona battaglia. Dopo l’incontro con Gesù, Paolo, e con lui tutti gli apostoli e ogni uomo, non ha smesso di peccare, ma nell’assiduo e umile ascolto della Parola di Dio e nella Eucaristia celebrata in comunione con i fratelli di fede, si è lasciato conformare a Gesù, fino al punto di diventarne sua immagine vera e fedele.
La preghiera di lode del fariseo è falsa perché il motivo della benedizione non è l’opera di Dio ma la propria esaltazione. La supplica del pubblicano è vera perché non si lamenta giudicando gli altri, ma invoca l’aiuto di Dio. La preghiera è dialogo tra innamorati in cui non ci si vanta di quello che l’uno fa all’altro, ma, accogliendo l’altro per quello che è, gli si dice quello che si vuole essere per lui. La preghiera più bella non può essere che questa: Amami come sono, perché possa amare come te.
Meditatio
Questuanti di misericordia
«Due uomini salirono al tempio a pregare» questa scena non era infrequente come non lo era quella della parabola precedente in cui una povera vedova ottiene con la sua insistente richiesta la giustizia che le spettava ma che il giudice tardava a concedere. Quel racconto spiegava la necessità di pregare sempre, senza scoraggiarsi, perché Dio interviene a favore dei poveri. La nostra parabola, sulla scia della precedente, vuole sottolineare che Dio opera la giustizia rendendo giusta la persona che prega.
Solo in apparenza ci sono due uomini che pregano, ma in realtà è solo uno, quello che torna a casa giustificato. Si tratta del pubblicano disprezzato dal fariseo e da lui accomunato alla schiera degli altri uomini adulteri, ladri, ingiusti.
La differenza tra i due uomini che salgono al tempio a pregare non consiste nei loro meriti o nelle loro colpe, ma nel loro modo di rapportarsi a Dio: come creditore della benevolenza di Dio, il primo, come debitore della Sua misericordia, il secondo. Il fariseo, stando ritto con il petto in fuori, si rivolge a Dio alla stessa stregua di chi si mette davanti allo specchio vantandosi orgogliosamente delle proprie opere buone. L’uomo, presuntamente religioso, non si accontenta di esaltare sé stesso ma, per apparire il migliore, si paragona al pubblicano e lo disprezza credendo di uscire vincitore dal confronto. In realtà ritorna a casa sconfitto perché Dio non guarda l’apparenza ma il cuore. Il Signore gradisce la preghiera del pubblicano perché nel suo cuore, al contrario di quello del fariseo, c’è spazio per Lui.
Il disprezzo, che il fariseo ha nei confronti del fratello, smaschera il peccato di orgoglio il cui cattivo odore impregna la sua preghiera di ringraziamento e l’elenco delle buone opere. Così facendo egli, confessando implicitamente il suo peccato, invece di aprirsi al perdono, si scherma impedendo alla grazia di Dio di guarirlo. L’unico peccato imperdonabile è il rifiuto del perdono. Tale diniego all’azione di Dio l’oppone il presuntuoso che si pone davanti a Dio come ad uno specchio. Diretta conseguenza del narcisismo, anche quello di stampo religioso, è il disprezzo degli altri. Il fariseo della parabola prega tra sé compiacendosi e congratulandosi con sé stesso per quello che non è e per quello che fa. Per l’uomo fintamente pio esiste solo il proprio io. La relazione è praticamente inesistente, chiuso, com’è, nella sua autoreferenzialità. La chiusura in sé stessi esprime la volontà decisa di non cambiare e non lasciarsi cambiare.
Al contrario il pubblicano, consapevole dei suoi peccati, alimenta la speranza del perdono con la preghiera umile e fiduciosa. Il pentimento non è solo riconoscimento delle proprie mancanze, ma soprattutto la speranza del dono di Dio che rende puri e giusti. Il pubblicano insegna che davanti a Dio bisogna spogliarsi di ogni merito per farsi rivestire da Lui di santità e giustizia. Davanti all’altare possiamo presentarci solo a mani vuote perché Dio le possa riempire di opere buone nei confronti dei nostri fratelli. Del pubblicano non sappiamo nulla se non ciò che ci accomuna, ovvero il fatto di essere peccatori. La sua preghiera umile ci offre un esempio di stile di vita. Davanti a Dio non è necessario fare l’elenco né dei meriti né delle colpe, ma bisogna starci come ci si espone ai raggi del sole per goderne i benefici. La vita si gioca sull’umiltà di spogliarsi della vergogna e lasciarsi amare!
La preghiera non può essere una forma di auto esaltazione ma, come insegna il pubblicano che non confida in sé stesso ma esclusivamente nella misericordia di Dio, consiste nel riconoscere la propria piccolezza e, al contempo, la grandezza di Dio. Chiedere è un atto di umiltà, a maggior ragione quando, mediante la supplica imploriamo il perdono. Sebbene peccatore, cosciente di essere indegno di stare alla presenza di Dio, il pubblicano non si nasconde dietro l’alibi della propria impurità ma con fede si rivolge a Dio come ad un padre comprensivo e benevolo, ma anche giusto ed esigente. Il fariseo parla tra sé esprimendo in un monologo il suo autocompiacimento mentre il pubblicano lascia parlare il cuore intessendo con Dio un dialogo d’amore.
Ciò che fa la differenza tra le due persone davanti a Dio è il fatto che il fariseo si nasconde dietro l’apparenza della giustizia, mentre il pubblicano si mette a nudo per ricevere la giustizia. Gesù aveva ricordato che Dio fa prontamente giustizia ai poveri che gridano a lui. Solo il grido del povero intenerisce il cuore di Dio da cui sgorga copiosa la sua misericordia; al contrario le grida dei presuntuosi, che disprezzano gli altri, gli provocano disgusto.
Il fariseo, pieno di sé s’incammina sulla via che lo condurrà agli inferi con tutte le sue pie pratiche, mentre il pubblicano e accolto nell’abbraccio paterno perché si è fatto povero e, perciò stesso, accogliente del dono di Dio. La preghiera non può essere finalizzata a ottenere un riconoscimento ma ad accogliere con speranza e fiducia ciò che cambia interiormente. Il fariseo punta sull’apparenza, il pubblicano sull’essenza.
Oratio
Signore Gesù, tu che non ti sei vergognato di far vedere al mondo la tua umanità umiliata, donami il coraggio di tornare nella casa del Padre con il cuore contrito, fiducioso questuante di misericordia. Fuori della porta lascio l’orgogliosa soddisfazione delle mie opere, la presuntuosa stima di me e i giudizi sprezzanti contro i miei fratelli. Davanti a te non sono nient’altro che un povero uomo che non si vergogna di essere tale e che con speranza stende la mano verso il Cielo per chiedere perdono. Povero di tutto ma arricchito della tua misericordia tornerò a casa dai miei fratelli per far festa con loro.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]