don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 21 Maggio 2023

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Dagli Atti degli Apostoli At 1,1-11

Fu elevato in alto sotto i loro occhi.

Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».

Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».

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Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

La consacrazione di Cristo e della Chiesa

L’evangelista Luca richiama la prima parte della sua opera nella quale ha narrato la missione di Gesù presentandola come un «esodo» iniziato col Battesimo nel fiume Giordano e culminato con l’ingresso nel cielo. La seconda parte dell’opera di Luca si concentra sul cammino e la missione della Chiesa che è pure un «esodo». I racconti di Lc 24 e quelli di At 1 sono sovrapponibili; i due angeli vestiti di bianco, il Risorto che istruisce i discepoli, lo stare a mensa e l’essere sottratto allo sguardo sono punti di contatto tra le due versioni degli eventi pasquali. Ciò che in Lc 24 si svolge nel «terzo giorno», in At 1 avviene in 40 giorni. Questo è un numero simbolico e sta ad indicare che la Pasqua di Gesù ha inaugurato un tempo nuovo nel quale i suoi discepoli sono chiamati ad essere protagonisti di questo rinnovamento. Si tratta non solo di imparare a gestire l’epoca del cambiamento ma di vivere a pieno il cambiamento di epoca, ovvero a lasciarsi convertire dalla Parola per essere testimoni credibili del Vangelo e operatori di Verità.

In Lc 24 Gesù si mostra vivo ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo. Ad essi rivolge l’invito ad attendere l’investitura dello Spirito Santo per essere nel mondo testimoni della misericordia di Dio che trasforma il cuore degli uomini e li rende costruttori del Regno.

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Oggetto dell’insegnamento di Gesù è il Regno di Dio, ovvero la regalità esercitata da Dio mediante Cristo e la Chiesa. Con la sua ascensione, la Chiesa non prende il posto di Gesù, ma Gesù prende posto nel cuore della Chiesa. Lo Spirito Santo fa della Chiesa, che si riunisce per ascoltare la Parola e che esce in missione per annunciarla al mondo, il suo Regno di Dio, il segno visibile del Re che viene a visitare il suo popolo.

Il modo con cui Luca narra l’ascensione si ispira al “rapimento” di Elia in 2Re 2, 9-15. In questo racconto si sottolinea che la missione del profeta culmina con l’elevazione in cielo che sta a significare la sua santificazione e la conseguente separazione dal mondo. Eliseo per il fatto di aver visto il suo signore salire al cielo riceve con il suo mantello anche lo spirito profetico che gli aveva chiesto. Il discepolo di Elia continua l’opera del profeta. Tra i due racconti ci sono delle analogie ma anche delle differenze sostanziali. Gesù non è stato “rapito” in cielo separandosi dal mondo. Con la risurrezione il Padre lo ha strappato dalla morte per consacrarlo re e sacerdote. Come tale egli, salendo al cielo, estende la sua signoria sui discepoli, i quali ricevono il dono dello Spirito per essere santificati e inviati in missione. Lo Spirito santo non è solo garante della continuità tra l’opera di Cristo e quella dei suoi discepoli, ma è artefice dell’opera di Cristo in quella dei discepoli. L’elevazione di Gesù in cielo e la sua consacrazione regale e sacerdotale coincide con la santificazione dei discepoli per opera del medesimo Spirito affinché «venga il Regno di Dio».

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (Ef 1,17-23)

Lo fece sedere alla sua destra nei cieli.

Fratelli, il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore.

Egli la manifestò in Cristo,

quando lo risuscitò dai morti

e lo fece sedere alla sua destra nei cieli,

al di sopra di ogni Principato e Potenza,

al di sopra di ogni Forza e Dominazione

e di ogni nome che viene nominato

non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.

Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi

e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:

essa è il corpo di lui,

la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose.

San Paolo invoca sulla Chiesa di Efeso il dono dello Spirito Santo affinché, animata e rafforzata della sua energia, possa sperimentare in sé stessa la potenza dell’Amore di Dio che fa passare dalla morte alla vita. Come Cristo è stato risuscitato e liberato dai vincoli della morte per essere intronizzato nei cieli e ricevere il potere regale sul mondo intero, così la Chiesa, ricolmata dallo Spirito di ogni virtù, diviene nel mondo presenza visibile del regno di Dio. Ciascun membro della Chiesa, in virtù del battesimo, viene santificato e riceve lo Spirito affinché possa essere testimone della misericordia di Dio con la sua vita spesa, come quella di Gesù, a servizio del Vangelo. In tal modo rivela a tutti la vocazione comune alla santità, intesa come comunione piena ed eterna con Dio e i fratelli.

Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 28,16-20)

A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Contesto

Siamo alle ultime battute del racconto fatto da Matteo all’indomani degli eventi della Pasqua di Gesù narrati negli ultimi tre capitoli. La scena si svolge in Galilea e più precisamente, sul monte che Gesù aveva indicato. Infatti, subito dopo l’ultima cena Gesù era uscito verso il monte degli Ulivi dove aveva annunciato la sua imminente passione. L’aveva presentata come il compimento della Scrittura che dice: «Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Zc 13,7). Tuttavia, Gesù annuncia anche la sua risurrezione dando appuntamento ai suoi apostoli in Galilea (Mt 26,30-32). Quella di Gesù suona come una promessa che mira a rassicurare i discepoli dopo il tragico annuncio della sua e loro passione. La passione sofferta dal pastore porterà a quella della dispersione subita dal gregge; tuttavia, la novità della risurrezione ricomporrà l’unità dei discepoli attorno al loro Maestro. Gesù era consapevole che, sottoponendosi alla croce, sarebbe diventato motivo di scandalo, innanzitutto per i suoi discepoli. Pietro, infatti, sarà il primo a rinnegarlo. I discepoli non comprendono – come avrebbero potuto! – che nel dramma della passione, in cui un innocente viene fatto oggetto di scherno e viene barbaramente ucciso, era all’opera Dio, il quale, proprio attraverso la sofferenza della croce, costituisce Capo e Pastore d’Israele quel Gesù di Nazaret che finalmente si rivela come l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Gesù, citando direttamente la Scrittura, non solamente vuole presentare gli eventi drammatici della passione quale compimento della Parola di Dio e sé stesso quale servo obbediente alla volontà del Padre, ma rivela chiaramente agli apostoli di vivere quei momenti con piena consapevolezza e libertà. Egli non subisce la storia che sembra relegarlo al ruolo di vittima dell’ingiustizia e della prevaricazione, ma si assume l’onere di testimoniare il suo amore a Dio e agli uomini affrontando la passione con coraggio e speranza, certo che l’ultima parola sarebbe stata affidata alla Vita. Quella di Gesù è una parola di speranza che nasce dalla certezza che Dio è sempre al suo fianco, non per risparmiargli la sofferenza ma per risollevarlo dalla morte. Tale speranza è credibile perché è confermata dalla storia. Molti sono stati testimoni della passione e morte di Gesù, ma nessuno della sua risurrezione.

Il racconto evangelico non si conclude con la scoperta della tomba vuota. Il sepolcro aperto, senza la parola dell’angelo che evangelizza le donne, sarebbe un segno ambiguo. C’è chi rifiuta di accettare quella novità sconvolgente e si fa portavoce della menzogna e chi, invece, accoglie la parola e si lascia coinvolgere nella missione di, non solo narrare ciò che è stato visto e ascoltato, ma anche trasmette il messaggio loro consegnato. Le donne non sono solo le prime testimoni, ma soprattutto le prime evangelizzatrici. Esse sono missionarie del primo annuncio: Gesù di Nazaret, che era stato crocifisso e sepolto, è risorto, è di nuovo in mezzo a noi come pastore che riunisce il suo gregge disperso. Questo messaggio è ribadito due volte, posto sulla bocca dell’angelo evangelizzatore, che rappresenta la Voce di Dio (Mt 28, 5-7) e su quella del Risorto che va incontro alle donne (Mt 28, 10). Il gregge è innanzitutto la comunità dei suoi discepoli che Gesù chiama «miei fratelli» (Mt 28,10).

«Gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato»

Il contesto del racconto della Pasqua ci aiuta a comprendere quello nel quale è inserito l’ultimo insegnamento di Gesù che, a ben vedere, richiama il primo fatto dal Maestro, pronunciato anch’esso sul monte della Galilea (Mt 4,12. 18. 23. 25; 5,1). È interessante notare che l’evangelista Matteo insiste sul fatto che Gesù inizia la sua missione evangelizzatrice dalla Galilea, zona periferica rispetto a Gerusalemme e terra di confine con i territori abitati dagli stranieri. Gesù sceglie di abitare a Cafarnao, sulle rive del Mare di Tiberiade, snodo importante della via commerciale in cui avvenivano scambi di merci ma anche di culture. È sulle rive del mare di Galilea che avviene la prima chiamata e l’invito rivolto a quattro pescatori di seguirlo per renderli «pescatori di uomini». Gesù, dunque, è presentato come un Galileo tra i Galilei. Nelle ore drammatiche della prigionia di Gesù presso la casa di Caifa coloro che stanno nel cortile del Sommo Sacerdote riconoscono Pietro quale discepolo di Gesù il Galileo e il Nazareno, infatti, lo tradisce anche l’accento della sua parlata. Galileo diventa sinonimo di inaffidabile. Tornare in Galilea significa accettare le proprie origini, non considerandole più alla luce del pregiudizio tipico della mentalità borghese, ma riconoscendo in esse l’inizio di un processo di cambiamento e di crescita. Dal giorno in cui hanno incontrato Gesù sulle rive del lago di Tiberiade i discepoli hanno iniziato un viaggio, attraverso villaggi, con le loro strade, case e sinagoghe, che li ha condotti fino al monte sul quale è posta la Città Santa, Gerusalemme. Lì, quel sodalizio, iniziato a Cafarnao, sembrava definitivamente e tragicamente concluso. Invece, come Gesù aveva loro predetto, Egli continua a passare e far sentire la sua voce invitando a seguirlo. Egli precede per aprire la strada. La vita spesso appare come un labirinto nel quale sembra di ritornare sempre al punto di partenza. La voce di Gesù, che raggiunge i suoi discepoli-fratelli nell’ombra della morte in cui sono avvolti, è la luce che sorge per illuminare «il popolo che abitava nelle tenebre» (Cf. Is, 8, 23-9,1; Mt 4, 15-16).

«Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono».

Se è vero che Gesù abitava a Cafarnao (probabilmente a casa di Pietro), è pur vero che non era sedentario ma molto dinamico. La sua missione era itinerante perché il messaggio evangelico potesse raggiungere capillarmente il territorio. L’evangelista Matteo sottolinea che molti andavano da lui per essere guariti e altrettanti, provenienti da ogni dove, iniziarono a seguirlo nei suoi spostamenti. Anche quando sale sul monte e si siede, assumendo la postura del Maestro, i discepoli lo seguono e si avvicinano a lui per ascoltarlo (Mt 5, 1). Quel primo lungo discorso inizia con le beatitudini che tracciano il profilo del Cristo e dei cristiani. Gesù si rivolge direttamente ai suoi discepoli invitandoli a gioire anche nella prova perché il vero tesoro non è quello promesso dal tentatore, ma «il regno preparato fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34). Il diavolo conduce sopra un monte altissimo per mostrare i regni del mondo e la loro gloria promettendo di concederli a condizione di sottomettersi a lui (Mt 4, 8-10). Gesù conduce sul monte i suoi discepoli perché dall’alto della croce mostra che le porte del paradiso sono spalancate e il banchetto nuziale è già pronto per essere consumato nella gioia. Come Gesù aveva risposto al tentatore citando la Scrittura (Dt 6,13): «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto», così gli apostoli si prostrano in adorazione davanti al Cristo risorto che si avvicina loro. I discepoli al vedere Gesù, si prostrano perché lo riconoscono come Dio e gli rendono culto. È certamente un atto liturgico con il quale si afferma che Gesù è il Signore. Nel “Discorso della montagna” Gesù aveva detto: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Il dubbio che prende alcuni dei discepoli rivela che essi non sono già arrivati ma a loro è chiesto di camminare, o meglio, riprendere, il cammino con Gesù, non in maniera disorganizzata e autonoma, ma insieme con lo stile sinodale.

«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra»

L’ultimo insegnamento di Gesù nel vangelo di Matteo va letto in parallelo con il primo che rappresenta una sorta di ouverture. L’invio missionario è racchiuso tra due annunci, collegati tra loro. La risurrezione ha costituito Gesù quale Signore del cielo e della terra il cui potere si estende a tutti gli uomini. La madre dei figli di Zabedeo un giorno si era avvicinato a lui chiedendogli due posti di potere per Giacomo e Giovanni. La sua replica mira a calmare gli animi agitati degli apostoli che iniziano a litigare tra loro. Egli indica in sé stesso la figura da imitare e non i governanti delle nazioni che dominano e i capi che le opprimono. L’unica vera ambizione ammessa è quella del potere dell’amore che si traduce nel servire e dare la vita in riscatto per molti (Mt 20, 20-28). Il potere dell’amore non si conquista con la forza o il compromesso, ma con il servizio. È amando che s’impara ad amare, e mettendo in pratica il vangelo che si acquisiscono quelle competenze che qualificano la vita rendendola cristiana e, dunque, veramente beata. Nel Cristo Signore dell’universo, crocifisso e risorto, si rivela l’essere di Dio che sempre si avvicina agli uomini per condividere con loro il cammino esistenziale lungo i sentieri della storia e fare di loro «il sale della terra e la luce del mondo» (cf. Mt 5,13-16).

«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato»

Il potere ricevuto dal Padre non consiste nell’occupare dei posti da cui manovrare le leve del potere, come immaginavano all’inizio gli apostoli. La missione affidata ai discepoli non può avere uno stile diverso da quello di Gesù. Come Lui è l’Apostolo del Padre per essere nel mondo il pescatore di uomini riscattati dal potere del Maligno, così i discepoli partecipano alla sua missione “discepolirizzando” tutti gli uomini. Nella misura in cui i cristiani seguiranno Gesù e si lasceranno convertire nella mente e nel cuore, per amare ciò che Dio ama, allora essi collaboreranno con l’opera dello Spirito. Egli imprime nei discepoli il sigillo di appartenenza al popolo di Dio che dà loro la forma di Cristo Servo e Signore.

La missione affidata alla Chiesa, intesa non come istituzione oppure come un’organizzazione ma l’ha voluta comunità-famiglia, consiste nell’annunciare il vangelo della misericordia ed essere testimoni di quella carità di cui Gesù è il campione assoluto. Lui, che non è stato un eroe solitario ma raduna attorno a sé coloro che accolgono il suo invito a percorrere insieme la via della felicità, spinge i suoi discepoli oltre il perimetro delle loro attese e li invia ad allargare i confini della Chiesa abbattendo gli steccati e barricate costruiti per difendersi. Non si tratta di fare proselitismo ma di essere evangelizzatori con la stessa passione di chi vuole concretizzare un sogno che dia pienezza di senso alla propria vita e che lo renda veramente felice. L’opera evangelizzatrice si compie attraverso il battesimo e l’insegnamento. Battezzare vuol dire generare nuovi figli della Chiesa e accompagnarli nel loro cammino di fede affinché siano aiutati a conoscere e a mettere in pratica il comandamento dell’amore a Dio e ai fratelli.

«Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo»

Con il richiamo all’Emmanuele, al Dio con noi, nome con il quale il Messia era stato annunciato dai profeti, si chiude il vangelo di Matteo, com’era iniziato. Il Signore assicura i discepoli timorosi per la missione che li attende, così come Dio aveva fatto a Giuseppe mediante l’angelo apparso nel sogno (Mt 1,22-23): “Non temere, io sono con te”. A Giacobbe in viaggio verso una terra ignota Dio garantisce: “Io sono con te e ti proteggerò dovunque andrai, non ti abbandonerò” (Gn 28,15); a Israele deportato a Babilonia dichiara: “Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo. Non temere perché io sono con te” (Is 43,4-5); a Mosè che obietta: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire gli israeliti dall’Egitto?”, risponde: “Io sarò con te” (Es 3,11-12); a Paolo che a Corinto è tentato di scoraggiarsi, il Signore dice: “Non aver paura, perché io sono con te e nessuno cercherà di farti del male” (At 18,9-10).

La storia non si conclude con un lieto fine ma rimane aperta e interpella il lettore del vangelo a cui spetta di essere eco della voce di Dio, sapore gustoso del Signore che si fa pane spezzato da mangiare, luce che brilla mentre si consuma la nostra vita nel servizio umile e generoso a favore degli uomini, soprattutto quelli relegati nelle zone d’ombra dell’esclusione sociale. L’invito del Signore Gesù ad andare rinnova in noi la vocazione ed è uno stimolo a fare una scelta di campo che esige il lasciare il mondo vecchio per seguire Gesù dovunque e comunque ci guidi. Per cui è sempre opportuno chiedergli dove mi sta dando appuntamento per incontrarlo e da lì ripartire con Lui per la missione? Come ai figli di Zebedeo non mi assicura posti sicuri da occupare. Gli domando, allora, cosa desidera da me? Come collaborare all’opera generativa della Chiesa? Essa, infatti, non è nel mondo per gestire o comandare, con lo stile dei governanti delle nazioni e dei loro capi, ma è posta come seme di una nuova generazione di uomini e donne, come leva per sollevare chi è per terra gravato dal peso dei suoi peccati, come casa in cui i viandanti smarriti possano ritrovare il senso della propria vita e riprendere il cammino verso la Gerusalemme del cielo.

Meditatio

Ricominciare è rinascere

Benché incompleta, perché i Dodici sono diventati gli Undici, la comunità dei discepoli risponde all’invito rivolto loro da Gesù di riunirsi insieme sul monte della Galilea da lui indicato.

Si ricomincia, da una parte, con la consapevolezza di essere imperfetti, incompleti e mancanti e dell’altra, con l’ansia di apparire efficienti e al “top” e la reticenza nel far emergere di sé anche la parte debole, per timore di essere sopraffatti o giudicati dagli altri.

Tuttavia, all’appuntamento col Signore ci si presenta timorosi di essere giudicati per le mancanze, ma anche fiduciosi nell’offrire a Dio il vuoto che ci appartiene affinché possa essere lo spazio abitato da lui. Gesù entra attraverso le ferite dell’umanità per colmarne le lacune e per perfezionare la capacità di amare.

Alla forza disgregatrice dell’ingiustizia Gesù oppone il potere unificante e riconciliante dell’amore.

Si ricomincia con l’incontro col Risorto davanti al quale tutti si prostrano. È un segno eloquente con il quale si vorrebbe dire: io sono niente e tu sei tutto, tu sei il Signore e io la creatura, tu il Maestro io il discepolo, tu il Re io il tuo servo. La prostrazione è l’atteggiamento spirituale di chi ha timore di Dio, che è un sentimento diverso dal terrore, che invece schiaccia. La presenza di Gesù non fa rimanere a terra, lì dove ci gettano i sensi di colpa, i dubbi, i rimorsi, lo scoraggiamento e la disperazione. L’incontro con lui, più che un regolamento di conti, serve a riannodare i fili della relazione d’amore, spezzati col peccato, e ricostituire il tessuto connettivo della fede.

Il potere nelle mani di Gesù non umilia e disprezza il peccatore ma valorizza la sua povertà. Egli si avvicina a chi ha la faccia immersa nella polvere della vergogna e del disonore per risollevarlo affinché il suo sguardo non sia ripiegato su sé stesso ma s’innalzi verso il cielo affinché impari guardare oltre e fuori di sé. Gesù ci convoca non per riparare ciò che si è rotto, rattoppare ciò che si è lacerato, rammendare quello che si è consumato, ma per rinnovarci interiormente con il dono dello Spirito Santo.

La missione è un cammino di rinascita personale attraverso il quale vivere nell’amore di Dio Trinità; è anche un cammino comunitario nel quale sono attirati e coinvolti tutti coloro che incontriamo perché affascinati dalla testimonianza di comunione e di servizio.

La missione che Gesù affida alla Chiesa non è la certificazione della sua piena idoneità, ma è uno stile di vita attraverso cui ogni discepolo diventa madre, generatrice di vita. Fare discepoli non significa “fare numeri”, ma generare alla fede nuove creature inserendole nella famiglia della Trinità e insegnando loro a vivere la legge dell’amore. La missione di generare alla fede, che Gesù affida al discepolo, si traduce nella capacità di costruire relazioni fondate sull’amore trinitario che fluisce dal cuore di Cristo.

La rinascita comporta un cambiamento del modo di amare non più ispirato ai valori mondani che esaltano l’efficienza a scapito dell’efficacia, che puntano sull’utile egoistico piuttosto che sul bene comune, che curano i propri interessi invece di prendersi cura delle persone.

L’amore trinitario, diverso da quello suggerito dal mondo, è relazione che genera, non emozione che consuma, vive del dono reciproco, non si esaurisce nell’ottenere quello che si brama, si guarda attorno spingendo lo sguardo oltre sé stesso ed è creativo nel rispondere ai bisogni dell’altro, non si autocompiace e non è ripetitivo.

Siamo esortati ad accogliere l’invito del Signore a riunirci attorno a Lui e a ripartire. Solo trasformati dal suo amore potremo riprendere il cammino della vita, non per tornare indietro, ma per metterci in uno stato permanente di missione. Questa è la strada della nostra liberazione, quella sulla quale impariamo che la vita non è una sequenza di prove da superare, ma un’occasione da non perdere per essere felici amandoci reciprocamente come Dio ci ama.

🙏 LEGGI LA PREGHIERA DEL GIORNO

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna