Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]
Credenti si diventa … attraverso le crisi
Leggi il brano del Vangelo di † Mc 4, 35-41
Dal terreno in cui è immerso il seme si passa all’acqua del mare attraversata dalla piccola barca sulla quale c’è Gesù e i suoi discepoli. Il Maestro, in una sua parabola, aveva detto che il Regno di Dio è come un seme che, una volta sprofondato nella terra, diventa frutto attraverso passaggi graduali. Questa immagine comunica una serena pace propria dei ritmi della natura che si svolgono in gran parte nel silenzio. Lo stesso vale per il processo di sviluppo biologico del corpo, ma i dinamismi della vita umana sono più articolati. I passaggi più delicati non avvengono mai in maniera indolore e il racconto della tempesta sedata ne è un esempio. L’evangelista sembra dire che la vita spirituale, non meno importante di quella fisica, non si sviluppa e non cresce «spontaneamente», quasi che sia riducibile ad un fattore culturale ricevuto sin dalla nascita, dipendente dal luogo o dalla condizione in cui si vive e da cui si è condizionati.
La fede, sebbene sia un dono gratuito, richiede di essere coltivata perché fruttifichi anche in condizioni precarie, come suggerisce l’immagine delle acque, e sfavorevoli, come indica l’esperienza della tempesta. La fede è un fatto personale, ma non strettamente individuale, la cui crescita chiama in causa le relazioni con gli altri e con il Signore, in maniera particolare. Dopo essere stati attorno al Maestro e averlo ascoltarlo, condividendo il pane della sua Parola, bisogna continuare a seguirlo anche quando invita a lasciare le sicurezze della terra ferma e imbarcarsi per passaggi avventurosi e verso orizzonti sempre più ampi. Gesù da una parte indica la pazienza dell’agricoltore e dall’altra propone ai discepoli di essere audaci come i naviganti. Pazienza e audacia devono contemperarsi affinché la prima non diventi tendenza ad accomodarsi nelle situazioni accontentandosi di «coltivare il proprio orticello» e la seconda non si trasformi in arrogante temerarietà che confonde la sete di potere con il regno di Dio e il servizio che lo caratterizza.
I discepoli recepiscono l’invito di Gesù e lo accolgono sulla barca «così come era», convinti che basti eseguire le indicazioni del Maestro per essere padroni della situazione. Ci saranno state altre tempeste che i pescatori hanno affrontato, ma quella sembra essere destinata a mettere la parola fine alla loro vita. Colui che li ha invitati a mettersi in cammino e che è salito con loro sulla barca, nel momento più critico c’è ma è come se non ci fosse, perché dorme. Tutto il peso della lotta per vincere le forze della natura che si sono scatenate contro la barca sembra ricadere sulle loro spalle. Lì essi sperimentano la loro impotenza e gridano a Gesù per svegliarlo recriminandogli la sua silenziosa indifferenza davanti al dramma. Nella solitudine misuriamo le nostre forze e le troviamo gravemente mancanti sia nel contrastare le forze ostili interiori che ci minacciano da dentro, sia anche nel realizzare i comandi di Dio. Il mare è simbolo del male con i suoi misteriosi e nascosti desideri di grandezza e con le sue manifestazioni di orgoglio violento e distruttivo. La tempesta è l’immagine del conflitto interiore che si scatena a causa dell’egoismo e dell’arroganza che ci abitano e che, per quanto ci sforziamo di tenere a bada, a volte ci sovrastano.
Nella prova l’atteggiamento di Gesù si contrappone a quello dei discepoli. Il primo dorme, lasciandosi vincere dalla stanchezza e cedendo «le armi» con fiduciosa obbedienza, i secondi si lasciano afferrare dalla paura e guidare dalla rabbia. Gli uomini vorrebbero «svegliare» Dio e riportarlo nella propria realtà perché intervenga. Gesù invece si «desta», ad indicare il passaggio dal sonno della morte all’autorità che mette un limite alla minaccia mortifera del male. Gesù sulla croce ha sperimentato il silenzio di Dio e ha provato il suo abbandono. In quel contesto di paura e di rabbia ha affidato il timone della sua barca al Padre, certo di essere salvato non dalla morte, ma attraverso di essa. La croce è l’altra riva a cui Gesù conduce, lì dove la sofferenza ci dà la misura della nostra umanità piccola come il seme ma al contempo la fede fa di questi limiti lo strumento per lasciarci amare da Dio e salvare. È Lui che mette un limite al male di cui siamo capaci e ci fa fruttificare nell’amore fino al dono totale della nostra vita.
Signore Gesù, Tu che hai sperimentato l’abisso della solitudine e le tenebre dell’abbandono, ascolta il grido della mia preghiera carica di paura e di rabbia. Aiutami a vivere le prove della vita come passaggi necessari attraverso i quali coltivare il seme della fede perché cresca fino a diventare frutto maturo e abbondante nella carità fraterna. Quando la preoccupazione diventa ansia che serra la gola e toglie il respiro, donami il tuo Spirito, perché non ceda alla tentazione che mi induce a cedere allo scoraggiamento e ad abbandonare la barca, la comunità dei miei fratelli, al suo destino. La tua Parola metta un limite alla forza dell’orgoglio e dell’ira che scatenano dentro di me reazioni violente e che portano con loro distruzione degli affetti e rovina delle relazioni. Trasforma la mia paura in timore e l’orgoglio in fiducia, muta il dubbio in speranza e il mio grido di aiuto in canto di lode, la mia preghiera di lamentazione in inno di ringraziamento.