don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 18 Giugno 2023

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GRATI PER ESSERE GRATUITI – XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) – Lectio divina

Dal libro dell’Èsodo (Es 19,2-6)

Sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa.

In quei giorni, gli Israeliti, levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davanti al monte.

Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo: «Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”».

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Santità e sacerdozio, appartenenza e partecipazione

Israele passa dal lavoro servile al servizio sacerdotale, ovvero dalla sottomissione alla legge del più forte all’obbedienza a Dio, forte nell’amore. Israele ha sperimentato la potenza di Dio che ha salvato gli Israeliti dalla schiavitù come l’aquila porta sulle ali i suoi piccoli per condurli in un posto sicuro. Il Dio del Sinai si rivela come Signore di tutto l’universo che mostra la potenza dell’amore, sollevando dal pericolo e proteggendo il popolo che ha scelto per guidarlo all’incontro con Lui e stringere un patto di alleanza.

L’appartenenza, paventata da Dio, non significa segregazione ma legame di amore che libera, responsabilizza e santifica conformando a Dio il credente nella mente e nel cuore, nella volontà e nell’agire. La scelta di Dio nei confronti del piccolo popolo d’Israele non lo pone su un piano superiore agli altri popoli perché s’inorgoglisca ma perché sia di esempio di obbedienza e di rispetto.

La santità, vissuta nell’esercizio del sacerdozio, è la caratteristica principale d’Israele perché è quel tratto che lo rende più simile al suo Dio. Letteralmente santo significa separato. Dio, come l’aquila con i suoi cuccioli, santifica il suo popolo, non isolandolo dalle altre nazioni ma separandolo dal male che dilaga nel mondo, perché in esso sia segno del bene che con la giustizia sconfigge il peccato e riconcilia gli uomini tra loro. Dunque sinonimo di santità è giustizia e comunione. Il sacerdozio ha come fine la santificazione, ovvero la conformazione di ogni membro del popolo a Dio, fonte di ogni santità, misericordioso e giusto.

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Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,6-11)

Se siamo stati riconciliati per mezzo della morte del Figlio, molto più saremo salvati mediante la sua vita.

Fratelli, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi.

Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.

A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.

Riconciliati e riconcilianti

La rivelazione biblica non consiste in una dottrina particolare ma nella relazione che s’instaura tra Dio e l’uomo. Le forme dei rapporti tra le persone possono essere tante; si va da quella familiare a quella sociale, da quella amichevole a quella professionale, da quella giuridica a quella istituzionale. Il legame che unisce Dio all’uomo abbraccia tutte le forme possibili perché coinvolge la vita in tutte le sue dimensioni: esso è l’amore. Dio si rivela dichiarando il suo amore per l’uomo. Lo ama non perché ai suoi occhi è meritevole ma proprio perché è debole e facile a cadere nel peccato, ovvero nel male che lo ferisce e che può portare alla morte. La scelta di Dio è dettata dall’amore gratuito e fedele. L’uomo, incapace di un amore tale ma desideroso di sperimentarlo, non avrebbe potuto immaginare un dio così; piuttosto lo avrebbe costruito “a sua immagine”, come ha fatto costruendo gli idoli, trasferendo in esso la sua ambizione.

Infatti, gli dei altro non sono che la proiezione o la gigantografia del proprio io egoista e avido di potere. Dio si rivela, ovvero fa conoscere il suo nome e il suo volto, non con discorsi verbosi ma con i fatti, il più grande dei quali è il dono del proprio Figlio unigenito. Gesù Cristo, morendo per noi, si offre in sacrificio per liberarci dal peccato. Solo l’amore che si dona può sconfiggere il male, liberare l’uomo dalla sua dipendenza mortale e costruire un legame forte con il Dio della vita. Tale relazione costituisce l’uomo quale Figlio di Dio, lo inserisce nella famiglia divina e lo santifica perché possa essere nel mondo testimone con la vita della misericordia che salva. Salvato e riconciliato con Dio, l’uomo, reso giusto dal sacrificio di Cristo, viene chiamato ad essere ministro della riconciliazione e della comunione fraterna per anticipare nel presente la gioia della beatitudine eterna.

+ Dal Vangelo secondo Matteo Mt 9,36-10,8

Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, li mandò.

In quel tempo, Gesù, 9,36vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore . 37Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! 38Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!”. 10,1 Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità.

2I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello; 3Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; 4Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì.

5Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.

Lectio

Contesto

La sezione che va da Mt 8,2 a 9,34 è dedicata prevalentemente al racconto di dieci miracoli compiuti da Gesù. È posta un’attenzione particolare, da una parte, alla manifestazione della sua autorità messianica esercitata sulle malattie (8, 1-17), sulla natura e i demoni (8, 23-28), sulle disabilità e sulla morte (9, 1-34), e dall’altra sulla questione della fede necessaria per seguire il Maestro, per essere guariti o riconoscerlo come Messia. L’attività missionaria descritta in questa sezione si svolge prevalentemente a Cafarnao, la città in cui Gesù aveva deciso di risiedere.

Mt 9,35, che presenta Gesù quale profeta itinerante, evangelizzatore e taumaturgo, funge da sommario della sua attività missionaria per introdurre la nuova sezione caratterizzata dal secondo discorso, detto «missionario» o «di invio». Infatti, le parole di Gesù indirizzate ai discepoli, introdotte dalla pericope sulla quale ci si sofferma questa domenica, affrontano tre temi importanti: la missione e il compito degli inviati (10, 5b-15), la persecuzione (10, 16-33), indicazioni e implicazioni dell’invio (10, 34-42).

Il tema missionario è presentato anche da Mc 6 e Lc 10; tuttavia, Matteo ha delle caratteristiche che gli sono proprie: 1) la elezione e la missione nasce dalla compassione di Gesù verso la gente sbandata «come pecore senza pastore»; 2) la presentazione dei Dodici che formano la prima comunità missionaria; 3) La partenza dei missionari rimandata a dopo la risurrezione (cf. Mt 28, 16-20).

Struttura

A – v. 9,36: La compassione di Gesù verso le folle che sono come «pecore senza pastore»

B – vv. 9, 37-38: Invito alla preghiera per la missione degli operai nel campo del Signore

C – v. 10,1: La vocazione e la missione dei discepoli

B1 – v. 10,2-4: L’elenco dei dodici apostoli

A1 – v. 10, 5-8: Istruzioni circa la missione da rivolgere alle «pecore perdute della casa d’Israele

I vv. 9,36 e 10,5-8 sono accomunati dalla relazione che si instaura con la gente, «pecore senza pastore» e «pecore perdute della casa d’Israele». La compassione, quale amore viscerale verso i deboli, si traduce nel prendersi cura dei più fragili.

I vv. 9,37-38 e 10,2-4 sono collegati dall’immagine degli operai «spinti» dal «signore della messe» nel campo e gli apostoli, ovvero i dodici discepoli che sono tali perché «inviati» da Gesù.

In posizione centrale c’è la chiamata e la costituzione del gruppo dei Dodici i quali ricevono da Gesù la sua stessa autorità per partecipare alla sua missione (10,1).

9,36 – «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore».

In 9,35 Matteo sintetizza la missione di Gesù evidenziando lo stile itinerante, il contenuto della predicazione e l’azione terapeutica. Il v.36 opera una focalizzazione interna ai personaggi coinvolti che ne rivela la loro più intima interiorità. La compassione di Gesù è l’intelligenza e la partecipazione al vissuto più profondo del popolo. Lo stile di prossimità di Gesù, che sceglie di non fondare una sua scuola ma di visitare città e villaggi, gli permette di sviluppare quella particolare virtù dell’empatia, grazie alla quale egli non rimane sulla superficie di un rapporto funzionale con la gente ma crea legami spirituali tali da cogliere il bisogno più vero di libertà e comunione.

Il termine greco, con il quale ci si riferisce alla compassione, ha nella sua radice l’immagine delle viscere che, nel greco classico sono la sede degli istinti più bassi, mentre nella tradizione biblica indicano l’utero materno. Non si tratta solo di una questione lessicale ma fondamentale per comprendere l’agire di Dio. Infatti, l’uomo che agisce di pancia tende ad afferrare per possedere, mentre la compassione, in senso biblico, è la “forza” che genera, cioè spinge fuori, ovvero fa venir fuori una nuova creatura. La compassione è assimilabile alla sofferenza propria delle doglie del parto.

Non c’è solo il dolore di chi partorisce, ma anche di chi viene partorito. Nel processo generativo la sofferenza di chi partorisce e di chi viene partorito sono congiunte affinché la speranza di chi partorisce diventi gioia di chi viene partorito.

Le folle appaiono agli occhi di Gesù come un gregge disgregato nel quale regna la solitudine e il disorientamento. L’immagine pastorale, cara alla tradizione biblica, richiama alla mente il popolo d’Israele che, lacerato da lotte intestine di potere nelle quale si contrappongono coloro che ambiscono a detenerlo per interesse personale e per orgoglio, diventa vulnerabile e più esposto alle vessazioni dei potenti di turno. L’ingiustizia, che attraversa trasversalmente tutte le classi sociali, è un vulnus che può far cadere nella rassegnazione o nella ribellione, oppure può essere un’occasione per aprirsi con speranza all’aiuto di Dio, non con un atteggiamento passivo ma responsabile.

L’immagine del gregge senza pastore ritorna nel contesto dell’ultima cena. Mentre Gesù esce dal cenacolo con i suoi discepoli verso il monte degli Ulivi annuncia il compimento della profezia di Zaccaria: «Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge». Tuttavia, aggiunge che una volta risorto egli li avrebbe radunati di nuovo in Galilea. È proprio quello che accade! (Mt 26, 30-31. 28, 7.10.16-20). Dunque, le «pecore senza pastore» sono le “pecore disperse”. I discepoli sono parte integrante di questo popolo che attende di essere riconciliato e raccolto in unità.

vv. 37-38 – «Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!”».

Dall’immagine pastorale si passa a quella agricola del campo che biondeggia di grano, pronto per essere raccolto. Il seme della Parola è stato gettato ed ha prodotto una messe abbondante. È arrivato il momento della mietitura. Rispetto alla vastità del campo gli operai sono pochi. Nelle parole di Gesù riecheggia la dichiarazione sconsolata di chi constata la mancanza di profeti. Il profeta Amos aveva annunciato: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore». Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno» (Am 8, 11-12). Il Salmista invoca l’aiuto di Dio facendosi voce della supplica che sale dal «gregge del tuo pascolo» perché «Non vediamo più le nostre bandiere, non ci sono più profeti

e tra noi nessuno sa fino a quando» (Sal 74,9). Israele, che da un manipolo di nomadi, è diventato un popolo numeroso sotto la guida di Dio, si ritrova ad essere un piccolo gregge che desidera ritrovare la guida sicura del suo pastore che conduce ai pascoli verdi e rigogliosi. Nella crisi si scopre che l’ingiustizia, che crea solo disordine sociale e povertà di beni materiali, si combatte ritornando a nutrirsi della Parola di Dio. Gli operai sono coloro che si fanno interpreti del bisogno di aiuto dell’uomo e si mettono a disposizione della volontà di Dio. I discepoli sono parte del gregge che cerca, attende e invoca il suo pastore ma anche operai che dicono: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8).

L’invio degli operai da parte del signore della messe non è un semplice incarico affidato a loro. Il verbo usato da Matteo suggerisce l’idea di una “spinta” simile a quella che esercita la donna durante il parto. L’invio missionario è un processo generativo nel quale gli operai più che offrire una prestazione occasionale esercitano una funzione generativa per formare una famiglia dai confini universali. Alla luce dell’invio missionario di Mt 28, 19-20, la prospettiva di Gesù, che abbraccia un orizzonte molto più ampio dei confini geografici, storici, culturali e religiosi d’Israele, fa dei discepoli gli operai della fraternità universale.

v. 10,1- «Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità»

Gesù si fa prossimo alle folle e ne ha compassione. Da questo sentimento, propriamente divino, scaturisce la missione di Gesù e dei discepoli a dodici dei quali rivolge una particolare chiamata. La convocazione segna anche la costituzione di un gruppo particolare con il quale Gesù condivide l’autorità di scacciare gli spiriti impuri e di guarire ogni malattia e infermità. Matteo è l’unico evangelista che cita per due volte la parola «Chiesa» (16,18; 18,17). All’inizio del primo discorso i discepoli si avvicinano a Gesù che era salito sul monte. Il primo evangelista forse vuole sottolineare il valore dello spazio sacro della sinagoga che viene dal verbo “riunirsi”. Come in sinagoga ci si riunisce attorno alla Parola, così i discepoli si riuniscono attorno a Gesù Maestro. In questo caso è Gesù che chiama a sé costituendo il primo nucleo della Chiesa (la radice verbale indica la convocazione) nella persona dei dodici discepoli.

Il numero dodici è chiaramente un richiamo alle tribù di cui era composto il popolo d’Israele che viene convocato per ricevere il «potere». Di quale autorità si tratta e da dove viene? Gesù trasmette quello che lui stesso ha ricevuto. Infatti, il Risorto avvicinandosi agli Undici fratelli ai quali aveva dato appuntamento in Galilea, dice: «A me è stato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). Il passivo teologico rivela che la fonte del «potere» è Dio che, con la forza dello Spirito, ha vinto la morte e lo ha risuscitato dai morti.

I dodici discepoli hanno assistito alle manifestazioni dell’autorità di Gesù delle quali l’evangelista Matteo ne racconta dieci. Il narratore trova nella Scrittura la chiave di lettura di quegli eventi nei quali si rivela l’identità Messianica di Gesù: «Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Mt 8,17 cita Is 53,4). L’attività missionaria di Gesù è la traduzione pratica della compassione intesa non solo come sentimento ma quale scelta di vita a servizio del progetto di Dio.

La misericordia, stile di vita proprio di Dio, è la forza dell’amore che viene data in pienezza a Gesù nella risurrezione e da lui partecipata ai discepoli perché nella loro missione possano rendere visibile la presenza del Signore che viene a salvare.

I discepoli sono chiamati per ricevere la grazia della misericordia che purifica, libera, guarisce per essere essi stessi misericordiosi e missionari della misericordia nei confronti dei loro fratelli.

vv.2-4 – «I nomi dei dodici apostoli sono: primo, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello; 3Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo; 4Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì».

Matteo inserisce l’elenco dei dodici discepoli eletti da Gesù e chiamati apostoli perché «inviati». Come la scuola di Gesù è la strada del mondo che gli uomini percorrono, le case nelle quali si vive il dolore della malattia e il piacere della convivialità, le sinagoghe in cui ci si raduna per ascoltare la Parola, così i discepoli sono inviati agli uomini per partecipare della loro vita che si svolge per le vie di comunicazione, nelle dimore e nei luoghi di culto. Essi sono apostoli perché inviati dal «signore della messe» «nella sua messe» per raccogliere il frutto, dal Pastore per prendersi cura e radunare suo gregge. Inquanto discepoli essi sono messe e gregge, destinatari della Parola di cura, perdona, libera, una volta risposto alla chiamata di Gesù essi, rimangono sempre bisognosi di aiuto ma diventano anche servi-operai della Parola, missionari di quella misericordia che li chiama a salvezza.

L’elenco dei dodici apostoli richiama l’inizio del Libro dell’Esodo dove vengono riportati i nomi delle dodici tribù che compongono il popolo d’Israele. Essi compongono la Chiesa nascente che non da origine ad un nuovo Israele ma è principio e modello dell’Israele nuovo che nasce per opera di Gesù Cristo, il Figlio di Dio.

vv. 5-8– «Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

La missione effettiva dei Dodici è preceduta da alcune istruzioni che riguardano gli obbiettivi, il contenuto e il metodo dell’azione missionaria. Più che la selezione dei destinatari Gesù invita gli apostoli a considerare la missione non come proselitismo e opera di convincimento o conversione ma a viverla con lo spirito di chi va incontro al fratello per aiutarlo. L’intento del divieto di percorrere la «strada dei pagani» e di «entrare nella casa dei Samaritani» è quello di chiarire sin dall’inizio che l’obbiettivo principale della missione è riscoprire la bellezza della comunione fraterna e favorirla purificando sé stessi da ogni idea o progetto estraneo alla volontà di Dio e al suo stile relazionale.

La compassione di Gesù da una parte e assunzione della debolezza dell’uomo, e dall’altra é piena fiducia nell’aiuto di Dio. Nella passione Gesù si è unito ad ogni uomo e donna piagati dalle ferite del male e del peccato e, pregando, ha dato voce alla supplica del giusto sofferente per implorare la salvezza. Ottenutala con la resurrezione, Egli dona lo Spirito Santo affinché accenda nei cuori dei suoi discepoli la luce della fede, della speranza e della carità. I discepoli, che prima d’incontrare Cristo hanno sperimentato le ingiustizie della vita, rispondendo alla chiamata a seguirlo e decidendosi per lui, ricevono lo Spirito Santo grazie al quale, lungi dall’essere immunizzati dalla fatica e dal dolore o dalle tentazioni, riescono a condurre la lotta contro il maligno sapendo di avere Gesù con loro come guida e maestro. I discepoli devono sempre fare memoria che, solo per i meriti di Cristo crocifisso e risorto, sono destinatari dell’amore che guarisce, risuscita, purifica, libera. Non per meriti propri sono amati ma per pura grazia; similmente non per acquisire meriti si va in missione ma perché la gioia del dono si moltiplichi raggiungendo gli ultimi e gli emarginati, a partire da quelli della propria famiglia e comunità. Proprio loro sono i primi destinatari dell’annuncio della salvezza fatta con parole e gesti intimamente connessi. L’io del discepolo non è né all’origine né al temine della missione che svolge. Egli non deve operare da sé stesso e per sé stesso, ma è chiamato a essere anello di una catena che nasce da Dio Trinità e trova il suo compimento nel Dio Comunione. Il discepolo missionario è parte e artefice della tradizione nella quale si trasmette la grazia del Vangelo che si riceve.

Meditatio

Operai di comunione

Gesù non s’inorgoglisce per il successo e non s’inasprisce per le critiche ma porta avanti la missione di predicare il Vangelo e di guarire ogni tipo d’infermità e malattia con cuore libero. Questo perché, mantenendo lo sguardo del cuore fisso sul volto del Padre, non cerca altro che compiere la sua volontà. La compassione è il sentimento che nasce da un animo puro come quello di chi è più desideroso di scoprire piuttosto che di possedere, di lasciarsi coinvolgere da una bellezza più grande invece di occupare posti di potere. Chi ha compassione non si preoccupa di sé ma dell’altro. Infatti, Gesù, calandosi pienamente nella situazione delle folle stanche e disorientate, coglie il loro bisogno di unità e coesione. Le parole che Gesù rivolge ai discepoli sono dirette anche a noi che spesso siamo accecati dalla gelosia. Come quelle cattive dei farisei anche le nostre parole deformano la realtà e creano confusione e disorientamento. L’azione del maligno avviene nel segreto e influisce sull’interpretazione che diamo ai fatti e soprattutto si manifesta nei giudizi taglienti espressi nei confronti degli altri. Sicché, da operai inviati nel campo per raccogliere la messe diventiamo come cinghiali che invadono i terreni per divorare e distruggere.

“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»” (Is 52,7). Le parole del libro del profeta Isaia, scritte cinquecento anni prima di Cristo, annunciano il ritorno di Dio come pastore e guida del suo popolo. La proclamazione dell’evento è affidata ai messaggeri che annunciano la pace portata dal Signore che esercita su Israele la sua regalità. Una delle immagini classiche per indicare il capo del popolo è quella del pastore che cura il suo gregge.

Il pastore svolge il suo lavoro sulla strada, così come Gesù percorre città e villaggi, evangelizzando e guarendo, e parimenti i Dodici discepoli sono inviati a predicare strada facendo. La strada è il luogo degli incontri non scontati, non programmati, non calcolati. Nel chiaroscuro dell’imprevedibilità c’è la possibilità per la scoperta e per la novità che l’incontro con l’altro sempre riserva.

La strada è lo spazio dell’incontro con chi non è aggrappato alle sue certezze mondane sulle quali confidare, ma è in ricerca di ciò che può realizzare i suoi sogni e i suoi desideri.

La strada è l’occasione per incontrare chi lascia la comodità e la convenienza di un posto fisso o la propria isola di sicurezza e si avventura. La strada è il luogo della condivisione sincera di quello che si porta con sé, le proprie domande, le ferite, i doni ricevuti e diventati patrimonio personale.

Gesù ci invita ad essere viandanti sulle strade del mondo e non sedentari custodi e vigilanti armati di verità astratte. Il pellegrino non seleziona a priori chi incrociare, ma sa solo che sta andando per incontrare tanti volti quante sono le sfaccettature dell’umanità complessa e articolata alla quale portare la luce del Vangelo.

Gesù tra i suoi seguaci ne sceglie dodici con i quali condivide più strettamente la sua missione. Il potere sugli spiriti immondi e di guarigione, che ha ricevuto dal Padre, egli lo partecipa ai Dodici. Essi ricevono l’eredità di Gesù e perciò, come i patriarchi d’Israele, sono chiamati a realizzare la promessa di Dio esercitando il potere loro conferito. I Dodici, pur mantenendo ognuno la propria identità, sono chiamati a vivere al loro interno la fraternità mettendo a servizio gli uni degli altri le peculiarità personali e riconoscendosi appartenenti ad unica famiglia, discepoli di un unico maestro, legati da un unico patto d’amore. La missione apostolica non è un privilegio dato a pochi ma è la vocazione di chiunque aderisce a Gesù Cristo e ne vuole seguire le orme. Infatti, l’essere cristiano non si riduce ad una funzione, ma è uno stile di vita caratterizzato dal desiderio di abitare veramente la terra sulla quale si poggiano i piedi per renderla bella e feconda. L’altra caratteristica dell’essere cristiano consiste nel prendersi cura del prossimo facendosi vicino agli altri fratelli e sorelle. Il regno dei cieli non è una teoria ma è una persona, è Dio che si fa prossimo all’uomo per liberarlo, guarirlo e dargli la vita. Il potere che Gesù conferisce alla Chiesa passa, attraverso gli apostoli e i loro successori, ad ogni battezzato perché sia nel suo ambiente di vita il segno vivo ed efficace dell’amore di Dio. Non bisogna confondere la fede con la devozione perché altrimenti rischiamo di accontentarci di qualche segno di croce abbozzato o di quello che ci si ricorda delle preghiere insegnateci a catechismo per dirci credenti. Non esiste cristianesimo senza missione e non è cristiano colui che non avverte la necessità di predicare il vangelo con la propria vita, attraverso il modo di parlare, di relazionarsi e di amare.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna