don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 17 Settembre 2023

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Metti in circolo il perdono! – XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Dal libro del Siràcide Sir 27,33-28,9

Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.

Rancore e ira sono cose orribili,

e il peccatore le porta dentro.

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Chi si vendica subirà la vendetta del Signore,

il quale tiene sempre presenti i suoi peccati.

Perdona l’offesa al tuo prossimo

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e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati.

Un uomo che resta in collera verso un altro uomo,

come può chiedere la guarigione al Signore?

Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile,

come può supplicare per i propri peccati?

Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore,

come può ottenere il perdono di Dio?

Chi espierà per i suoi peccati?

Ricòrdati della fine e smetti di odiare,

della dissoluzione e della morte e resta fedele ai comandamenti.

Ricorda i precetti e non odiare il prossimo,

l’alleanza dell’Altissimo e dimentica gli errori altrui.

Il perdono, ricevuto e offerto, guarisce le ferite dell’ira

La riflessione del sapiente nasce dalla constatazione della realtà fatta spesso di conflitti armati tra persone. Essi sono generati dal cuore che serba ira a causa di qualche torto subito. Essa si trasforma in odio e rancore che sfociano in atteggiamenti violenti. La ferita dell’ingiustizia non si cicatrizza senza l’accoglienza umile del dono di Dio che, da una parte rende consapevoli della propria debolezza e, dall’altra, genera il bisogno di essere guariti e quella sensibilità che rende solidali con i fratelli, similmente peccatori.

La preghiera di perdono è innanzitutto una supplica di guarigione dalle rigidità e durezze del cuore. Da qui l’esortazione a non chiudersi nel proprio dolore ma di condividerlo con Dio nella preghiera affidando a Lui la propria causa e pregando anche per i nemici affinché gli avversari possano riconciliarsi.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani Rm 14,7-9

Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.

Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore.

Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore.

Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi.

La rivalità tra fratelli mortifica la fede e la comunione

Nella comunità cristiana di Roma, a cui Paolo si rivolge, c’erano delle tensioni tra due gruppi: quello legato alle tradizioni rituali dei giudei che erano scrupolosi osservanti delle norme di purità, e quelli invece che si sentivano più liberi da condizionamenti tipicamente giudaici per vivere la fede in maniera meno formale ma in modo più aderente allo spirito del vangelo.

Paolo ricorda che in qualsiasi modo si viva la fede siamo sempre uniti a Cristo da legami di appartenenza grazie ai quali ai riceve il medesimo Spirito per l’esercizio dei ministeri a vantaggio di tutta la Chiesa. Se, dunque, Gesù è morto ed è risorto per esercitare la signoria su tutti gli uomini la fede non può essere un motivo di divisione o, peggio ancora di rivalità.

+ Dal Vangelo secondo ✝ Mt 18, 21-35

Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. 22E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.

Lectio

Contesto

Il discorso comunitario o ecclesiale, quarto dei cinque raccolti nel Vangelo secondo Matteo, è diviso in tre parti. Nella prima parte (vv. 1-10)Gesù, replicando ai discepoli che gli domandano chi fosse il più grande nel Regno dei cieli, propone come modello il bambino con la sua umiltà; al tempo stesso mette in guardia dallo scandalizzare i più piccoli della comunità. La domanda dei discepoli è una richiesta di criteri per discernere circa i ministeri all’interno della comunità. Non si tratta di ricoprire ruoli ma o esplicare incarichi ma di essere costruttori di comunità e custodi della comunione. Lo stile non può essere diverso da quello offerto come esempio da Gesù stesso che chiama a sé un bambino ponendolo al centro della comunità.

Nella seconda parte (vv. 12-20) Gesù, in quanto maestro e guida della comunità interroga i suoi discepoli a partire dall’immagine del pastore che va in cerca della pecora smarrita. In tal modo egli introduce il tema della missione di chi, assumendosi la responsabilità di un ministero, deve avere sempre a cuore il bene della comunità e in particolare dei suoi membri più fragili che per varie ragioni si allontanano e rompono con il peccato la comunione fraterna. La correzione di chi pecca e turba la pace della comunità non deve ispirarsi a logiche giustizialiste che pretendono di soluzionare il problema imponendo regole sempre più stringenti. I conflitti sono un’opportunità offerta a tutti per educarsi alla fraternità. Chi assume ruoli di responsabilità deve mettere in conto i conflitti che è chiamato a gestire non con la presunzione di essere giudice o ago della bilancia ma con l’umiltà propria di chi si sente debitore verso Dio e verso i fratelli.

Struttura

Nella terza parte del discorso (vv. 21-35), come nella prima, l’insegnamento di Gesù nasce dalla domanda dei discepoli e di Pietro, come rappresentante e portavoce degli altri compagni nella sequela del Maestro (v. 21). Come nella seconda anche nella terza parte Gesù narra una parabola che verte, da una parte, sul rapporto critico che s’instaura tra Dio e gli uomini a causa del debito del peccato, e dall’altra, sulla relazione tra gli uomini messa in discussione da qualche problema che mina la solidarietà fraterna (vv. 22-34). Il nesso tra le due relazioni è ripreso nella conclusione di Gesù (v.35).

v. 21-22 – 21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. 22E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

La domanda che Pietro rivolge a Gesù suona letteralmente: «Signore, quante volte peccherà il fratello mio contro di me, perché lo perdoni? Fino a sette?». Dunque, stando alla lettera del testo Pietro più che misurare il suo perdono conta le volte nelle quali il fratello pecca contro di lui. In questo modo egli vorrebbe mettere un limite alla sopportazione del fratello che pecca giustificando una reazione legittima. C’è una domanda che rimane in sospeso: cosa intende Pietro per perdono? Rinunciare ad esigere dall’altro? Rinunciare alla ritorsione o alla vendetta? Porsi come obiettivo il ristabilimento delle relazioni fraterne? Dimenticare i torti ricevuti e fare finta di nulla?

La risposta di Gesù è chiaramente un’iperbole che mira a far cambiare prospettiva: non bisogna ragionare in termini di quantità ma di qualità. Il perdono non può nascere dalla mente calcolatrice ma dal cuore rigenerato dalla misericordia di Dio e dal quale scaturisce la compassione e la solidarietà fraterna. Il titolo «Signore» che Pietro usa per rivolgersi a Gesù nella parabola indica il re che esercita la sua signoria sui servi. La tradizione rabbinica stabiliva che per lo stesso peccato si poteva accordare il perdono un numero limitato di volte, di solito fino a tre. Le sette volte di Pietro supera abbondantemente la misura comunemente considerata giusta. In tal modo l’apostolo si dimostra più generoso e disponibile rispetto alla consuetudine.  

vv. 23-34 – 23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.

La parabola è esclusiva di Matteo il quale ha una particolare attenzione verso la Chiesa intesa come la comunità degli uomini nella quale si manifesta il «Regno dei cieli». Nel discorso delle parabole Gesù ha offerto delle immagini suggestive per descrivere il Regno dei cieli sia nel suo aspetto teologico che antropologico. In particolare, nella parabola del grano e della zizzania emerge la pedagogia di Dio ispirata alla pazienza e alla compassione contro cui si oppone l’istintiva reazione dei servi che vorrebbero fare subito giustizia a modo loro.

I protagonisti della parabola sono il re e i suoi servi; il contesto è la regolazione dei conti, momento nel quale si fa giustizia. Il racconto, dopo una breve introduzione, presenta tre scene. Nella prima (vv. 23-27) la sentenza di condanna si trasforma in assoluzione e il servo insolvente, che era legato da un debito altissimo, da schiavo diventa uomo libero. Nella seconda scena (vv. 28-30) avviene una situazione simile alla prima nella quale il debitore supplica il creditore di avere pazienza e di attendere per la restituzione del prestito; ma la conclusione è diversa da ciò che ci si aspetta, infatti, invece di replicare l’atteggiamento misericordioso del re che, non solo era venuto incontro alla sua supplica, ma gli aveva addirittura cancellato il debito, egli si irrigidisce sulle sue posizioni e nega la possibilità di dilazionare la restituzione del debito condannandolo alla prigione. La terza scena (vv. 31-34) è composta di due pannelli narrativi: il primo riporta l’intervento dei servi che, avendo assistito all’evento increscioso, informano il re dell’accaduto e nel secondo si descrive il giudizio di condanna non perché non è riuscito a pagare il suo debito ma perché ha omesso di perdonare nello stesso modo con cui gli è stato condonato il suo debito, in tal modo causando la condanna del conservo.

La figura del servo è descritta da vari punti di vista. Nella tradizione rabbinica è frequente l’immagine del re che fa i conti con i suoi servi. Nella prima scena abbondano le esagerazioni, infatti sia la cifra del debito che le conseguenze normali dell’insolvenza sono volutamente ampliate in maniera iperbolica. Un debito così grande condanna il servo a essere perennemente debitore. Stando alla norma il debitore insolvente diventa schiavo, è ridotto a merce di scambio e il suo valore diviene puramente commerciale. La consapevolezza della propria impotenza spinge il servo a umiliarsi supplicando il re affinché gli conceda altro tempo, un’altra possibilità di riscatto. La cifra è troppo grande (tanto denaro insieme non circolava nell’intera Palestina) perché il debito possa essere estinto con le sole forze del servo e della sua famiglia. L’impegno del servo non è realistico nei termini in cui lo espone ma al re basta anche quello per rispondere positivamente al suo appello. La preghiera disperata del servo commuove il re che nutre sentimenti di compassione e in un impeto di amore cancella il debito e rende il servo una persona finalmente libera.

Nella seconda scena le parti si ribaltano. Colui che agli occhi del re è un servo ex debitore, a quelli di un suo fratello è un creditore. Egli è consapevole di essergli debitore ma lo è anche del fatto che potrebbe estinguerlo perché non è grande come quello che era stato condonato al primo. La supplica che rivolge ha, dunque, una base di realismo. Egli ha bisogno solo di un po’ di tempo in più e per questo chiede pazienza. Le suppliche dei due servi sono identiche, benché anche differenti perché la prima si basa su un impegno irrealizzabile, mentre la seconda su uno possibile. Se è vero che non posso restituire a Dio tutto quello che mi ha dato e invece vero che è nelle possibilità, ancor prima che un dovere, restituire ciò che è stato prestato. Qui avviene un secondo punto di svolta nel racconto. La spietatezza dell’uomo servo condanna il fratello alla prigione. È evidente il contrasto tra il condono del debito che nasce dalla compassione del re e la spietatezza del servo che causa la condanna del suo fratello. Chi dei due ha agito veramente secondo giustizia? In punta di diritto il creditore è legittimato a fare di tutto per riscuotere il dovuto. Il re antepone al suo interesse, tutelato dalla legge, il bene della persona, anche se è un suo sottoposto. Il servo creditore invece pur di tutelare i suoi piccoli interessi consegna suo fratello.

La terza scena fa rientrare in campo nuovamente il re il quale questa volta incontra la comunità dei servi che gli espongono il loro turbamento. Essi, infatti, poiché partecipano al dolore del servo condannato senza appello, si fanno voce del suo grido di giustizia. La scena conclusiva descrive il giudizio finale e definitivo che è nefasto per il servo spietato perché non messo in pratica l’impegno preso nella supplica. Infatti, nella preghiera del «Padre nostro» Gesù insegna a pregare così: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Nella preghiera il cristiano prende con Dio, Padre nostro, l’impegno di perdonare i fratelli così da essere perdonato da Lui. Il perdono tra fratelli è la condizione indispensabile perché il perdono di Dio si applichi alla vita del credente.

 v. 35 – 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.

Le parole conclusive di Gesù suonano come un avvertimento per i discepoli. Il perdono è dono gratuito di Dio che richiede di essere coltivato mediante la responsabilità nei confronti dei fratelli nella fede. Il perdono non è un ideale utopistico ma è una realtà che deve tradursi in scelte concrete di amore che nascono dal cuore riconciliato con Dio e con sé stessi. Nella misura in cui si assimilano i sentimenti di Dio si diventa anche capaci di imitare il suo esempio di uomo che antepone il bene comune a quello individuale e che fa scaturire la giustizia dalla misericordia.

Meditatio

Metti in circolo il perdono!

Il cuore dell’insegnamento di Gesù nel vangelo di Matteo è il Regno dei cieli. Con questa immagine Gesù parla dell’azione di Dio che esercita la sovranità non imponendo la sua volontà ma chiamando donne e uomini a edificare con Lui, e su di Lui, una comunità, la Chiesa, la cui caratteristica principale è la comunione. Il Regno dei cieli, che si compie nella vita eterna con la comunione dei Santi, inizia a realizzarsi anche sulla terra allorquando i figli di Dio si amano scambiandosi reciprocamente lo stesso amore che ricevono dal Padre attraverso Gesù e lo Spirito Santo. Il regno dei cieli non è solo l’esercizio della sovranità di Dio ma anche la pratica della giustizia da parte degli uomini che non si adeguano alla mentalità comune per la quale al male si risponde con la vendetta. La vendetta rinnova e amplifica il dolore provocato dal male subìto. Il risentimento e l’odio montano nel cuore dell’uomo che non riconosce in essi pensieri da bloccare e la necessità di essere guariti dal Signore con il perdono. Il peccato del fratello contro di noi deve ricordarci quello nostro verso gli altri e sentire il bisogno di guarigione, piuttosto che dare spazio al livore nei confronti di chi ci ha ferito. Il perdono di Dio ci guarisce da due ferite: sia quelle subite dal peccato altrui sia quelle inferte agli altri con il nostro.

La comunione nella Chiesa, che ricordiamo essere il Regno dei cieli nella storia, non è l’armonia e la concordia tra i perfetti. La comunione è una meta a cui tendere, un bene da conquistare, un fine da raggiungere, un impegno da assumere, un lavoro continuo da eseguire, un servizio gratuito da offrire. La comunione è l’orizzonte verso cui camminare anche se con grande difficoltà perché si scontra con la debolezza propria e altrui. La domanda di Pietro sottende l’idea di mettere un limite al perdono come deterrente alla reiterazione del peccato. Dopo il perdono viene la condanna. L’idea di giustizia che ha Pietro risente dell’ideale retributivo per cui Dio, il giudice per eccellenza, premia il giusto meritevole con il bene e condanna l’empio colpevole con la morte.

La parabola inizia e termina con un giudizio di condanna. La nostra vita sarebbe un fallimento completo se ci basassimo solo sulle nostre forze e se applicassimo agli altri, e fosse applicato anche a noi, il principio della retribuzione. Davanti a Dio siamo tutti peccatori. Siamo servi insolventi e il nostro destino sarebbe la condanna se la preghiera non attivasse la compassione di Dio che ci perdona. Nella preghiera, attraverso Gesù, ci viene dato lo Spirito Santo che, come nel momento della morte di Cristo, è effuso per la remissione dei peccati. Come inondati e immersi nella misericordia di Dio rinasciamo guariti e liberi per essere a nostra volta annunciatori della Parola che salva facendo il bene ai nostri nemici. Il perdono di Dio è dunque anticipazione nella storia dell’accoglienza che Egli riserva ai servi fedeli introducendoli alla festa della comunione dei Santi. Il perdono finale, cioè il lasciapassare per la vita eterna, lo si guadagna se il perdono ricevuto gratuitamente da Dio si trasforma nel perdono gratuitamente offerto ai fratelli.

Il perdono di Dio è duplice: quello del giudizio finale e quello del giudizio quotidiano mentre siamo al suo servizio in questo mondo. Il perdono finale apre le porte del paradiso, quello temporale spalanca le porte del nostro cuore per realizzare la comunione fraterna in questa vita. C’è, infatti, un duplice aspetto del Regno dei cieli, quello che si realizza storicamente su questa terra e quella che si compie nella vita eterna.

Del Regno dei cieli nella sua dimensione ecclesiale e storica parla la parabola narrando due scene nelle quali al centro c’è la supplica per essere perdonati. Nel primo caso il perdono è concesso e addirittura c’è il condono del debito e il ritorno alla piena libertà del servo. Lo stesso servo è il protagonista della seconda scena in cui un suo fratello, servo come lui, lo prega, similmente a quanto aveva fatto precedentemente, ma con una risposta opposta a quella che egli aveva ricevuto dal padrone.

La condanna già stabilita, ma che era stata cancellata dalla misericordia, diventa effettiva perché il servo non ha messo in circolo l’amore che lui stesso aveva ricevuto. Chi interrompe il circolo virtuoso della misericordia si condanna al fallimento. Il risentimento ci fa coniare la moneta falsa del giudizio e della calunnia. Il perdono di Dio ci aiuta invece a far splendere sul nostro volto il sole della giustizia e lo splendore della bontà. La violenza deve lasciare il posto alla benevolenza, la sete di vendetta al desiderio di riscatto di colui che è schiavo del peccato.

Il Regno di Dio è la Chiesa che è chiamata nei suoi membri a invocare il perdono, ad accoglierlo e a trasmetterlo nella comunità dei fratelli. La Chiesa si fonda sulla preghiera con la quale invochiamo il perdono di Dio per il peccato da noi commesso che mette in crisi la relazione d’amore con Dio e con gli altri. Quando il peccato del fratello ci ferisce dobbiamo presentarci davanti al Signore con la stessa umiltà e fiducia del debitore. Nella supplica gli presentiamo il dolore per le umiliazioni ricevute e la forza di perdonare la colpa del fratello avendo a cuore la sua guarigione interiore come curiamo la nostra.

Se ci presentiamo al cospetto del Crocifisso spogliamoci della toga da pubblico ministero e abbassiamo l’indice accusatore, ma vestiamo la veste di avvocato che Gesù ci offre affinché possiamo essere per coloro che ci fanno del male accompagnatori nel comune cammino di conversione verso la piena comunione fraterna nel cielo.

Quando la Carità vince sulla paura l’amore si (ri)genera col perdono

La domanda di Pietro riflette la preoccupazione comune di evitare l’abuso di un bene importante come la pazienza. È come dire che la pazienza ha un limite e che non bisogna abusarne. A volte poniamo dei legittimi paletti per difenderci dall’abuso che gli altri possono fare della nostra benevolenza e disponibilità.

La parabola che Gesù racconta mette in ordine alcune cose. Innanzitutto, relativizza il nostro potere. Noi siamo servi, non padroni, siamo amministratori dei beni, non detentori di un tesoro che non ci appartiene. Come tali non siamo innanzitutto creditori nei confronti di Dio, ma debitori, sempre insolventi. Nei suoi confronti non possiamo rivendicare dei diritti, ma facciamo appello alla bontà di Colui che è ricco di misericordia.

La compassione di Dio supera la supplica del servo che è sciolto dal debito, ma non dal suo dovere di essere buon amministratore. Il perdono è l’occasione che Dio ci offre per amministrare ciò che si è ricevuto, non sfruttandolo per se stessi, ma condividendolo con gli altri.

I servi della parabola sono accomunati dall’aver contratto un debito, difficile o impossibile da restituire, e dalla preghiera rivolta al creditore. Ciascuno di noi non è mai solo debitore o creditore, ma l’uno e l’altro insieme, siamo debitori a Dio del dono infinto dell’amore e siamo creditori nei confronti degli altri fratelli di qualcosa che però ha un valore infinitamente inferiore a ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto.

Il perdono di Dio crea spazi di libertà e di rinascita. Siamo chiamati ad esercitarci nel perdonare e quanto più lo facciamo tanto più ci riusciamo. Infatti, dentro di noi la gioia di essere amati e la felicità con la quale amiamo sono in continua competizione con la paura di essere delusi e la rabbia di essere stati feriti. Quando la gioia di amare supera il dolore del male ricevuto e quando la carità vince sulla paura, nasce il perdono e l’amore si rigenera.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna