don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 15 Ottobre 2023

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XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) – Lectio divina

Dal libro del profeta Isaìa Is 25,6-10

Il Signore preparerà un banchetto, e asciugherà le lacrime su ogni volto.

Preparerà il Signore degli eserciti

per tutti i popoli, su questo monte,

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un banchetto di grasse vivande,

un banchetto di vini eccellenti,

di cibi succulenti, di vini raffinati.

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Egli strapperà su questo monte

il velo che copriva la faccia di tutti i popoli

e la coltre distesa su tutte le nazioni.

Eliminerà la morte per sempre.

Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto,

l’ignominia del suo popolo

farà scomparire da tutta la terra,

poiché il Signore ha parlato.

E si dirà in quel giorno: «Ecco il nostro Dio;

in lui abbiamo sperato perché ci salvasse.

Questi è il Signore in cui abbiamo sperato;

rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza,

poiché la mano del Signore si poserà su questo monte».

La festa finale

L’oracolo del profeta Isaia annuncia il vangelo ad un popolo che vive il dramma della crisi di fede ed avvolto dal velo del lutto perché avverte l’assenza di Dio e si sente da Lui condannato e abbandonato. Dio risponde al grido di dolore di un popolo che é stato anche abbandonato a sé stesso dai suoi responsabili il cui peccato d’indifferenza e di avidità lo ha condannato alla schiavitù della diffidenza e della paura. Per questo il popolo geme e grida aspettando la redenzione.

Dio risponde a questo anelito di libertà che consiste non solo nell’uscire da ambienti che ci stanno stretti ma nell’essere liberati interiormente dal peccato della disperazione. Dio, infatti, più che rompere le catene esterne, strappa dal volto dell’uomo il velo che rende ciechi, sradica la radice del male dal cuore affinché da esso non escano progetti di vendetta ma fioriscano le intenzioni buone.

Dio fa uscire dalle tombe dei cuori diventati sepolcri belli fuori ma pieni di corruzione dentro per introdurre i suoi servi liberi nella sala della festa. Essa é la comunità fatta di fratelli e sorelle che si riuniscono alla mensa per nutrirsi insieme del cibo della Parola e aiutarsi reciprocamente nell’utile e generoso servizio della carità. Il cibo che il Signore prepara non sazia i desideri mondani ma ci riempie il cuore dello Spirito Santo che ci fa nuove creature.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési Fil 4,12-14.19-20

Tutto posso in colui che mi dà forza.

Fratelli, so vivere nella povertà come so vivere nell’abbondanza; sono allenato a tutto e per tutto, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. Tutto posso in colui che mi dà la forza. Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alle mie tribolazioni.

Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza, in Cristo Gesù.

Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Tutto è possibile con l’amore di Dio

Concludendo la lettera indirizzata alla comunità di Filippi, l’apostolo rende grazie a Dio e ai Filippesi per il conforto e l’aiuto concreto che ha ricevuto mentre è in carcere a causa del ministero di annunciatore del Vangelo. Dio mostra la sua provvidenza mediante i fratelli nella fede che sono stati educati alla carità. Essa è innanzitutto solidarietà nella gioia e nel dolore, così come Paolo, dovunque è andato a predicare il Vangelo, facendosi tutto a tutti ha imparato e ha insegnato a essere fiducioso nella povertà e generoso nella ricchezza, solidale con i poveri e riconoscente verso i ricchi. In ogni condizione la forza viene da colui che da ricco si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà. Nell’abbondanza e nell’indigenza quello che conta è l’amore di Dio da accogliere con cuore puro e condividere tra i fratelli con semplicità. Tutto deve essere ricondotto a Dio e a lui dare gloria attraverso il sacrificio della propria vita.

+ Dal Vangelo secondo Lc 11,27-28

Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.

In quel tempo, Gesù, 1 Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: 2“Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: “Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. 5Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. 10Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”.

LECTIO

Contesto

Questa è l’ultima delle tre parabole che Gesù narra dialogando con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo. Subito dopo ci sono quattro dispute su altrettante questioni teologiche (22, 15-46).

Struttura

La parabola è presentata da Gesù come la risposta alle autorità giudaiche. La similitudine intende spiegare le dinamiche del Regno dei cieli (v.1-2a). Il racconto, in quanto tale è composto di due parti che corrispondono al momento della preparazione immediata alla festa di nozze (vv. 2b-10) e a quello della sua celebrazione (vv. 11-13). La conclusione è affidata alle parole di Gesù che trae dal racconto una considerazione sapienziale (v.14).

La festa nuziale che il re organizza per suo figlio è il contesto che fa da sfondo al dittico narrativo di cui è composto il brano evangelico. Nella prima parte del racconto il re invia i servi col compito di annunciare agli invitati che il tempo della festa è giunto. Il participio perfetto passivo del verbo invitare, indica il fatto che l’invito non era valido solo nel passato ma che continua ad esserlo anche nel presente. Il messaggio insito nell’identità degli invitati è che essi sono agli occhi del re sempre destinatari della sua attenzione e del desiderio di partecipare con loro alla sua gioia. La chiamata non esorta tanto a prepararsi per un evento futuro, quanto soprattutto a rispondere alla vocazione partecipando alla festa che è un fatto del presente. Ma essi rinunciano all’invito. Il re non si dà per vinto e non si lascia scoraggiare dalla scortesia dei suoi invitati, sicché invia nuovamente altri messaggeri che hanno il compito di trasmettere un messaggio ancora più chiaro ma anche più urgente: tutto è pronto, ma non ci può essere festa senza gli invitati che gustano i cibi preparati per l’occasione. A fronte dell’accorato appello del re gli invitati reagiscono chi con l’indifferenza, concentrandosi sui propri affari, e chi con una violenza ingiustificata. Davanti a una così palese ingiustizia, la risposta del re è altrettanta dura. L’aggressione mortale riservata ai servi attira sugli invitati ingrati e omicidi la medesima sorte.

Qui potrebbe terminare il racconto che invece continua perché il rifiuto dei primi invitati non fa desistere il re dal fare la festa. Le nozze sono ormai decise e la festa è già iniziata con la preparazione del banchetto. Da qui l’ulteriore invio dei servi per invitare gli ospiti. I destinatari non sono più esclusivamente i primi invitati ma quelli che erano stati esclusi o si sentivano tali. Infatti, i missionari devono andare «all’uscita delle strade». I servi devono battere «le vie di uscita» o «di fuga» e andare verso gli ultimi o gli «esodati» per chiamarli e condurli alla festa di nozze. I primi invitati erano tali per puro atto di grazia del re. Infatti, non si menziona un titolo particolare perché essi avrebbero dovuto meritare un privilegio del genere. Anche gli ulteriori invitati sono come i primi. Infatti, proprio perché ultimi, al re non importa se vivono quella condizione per colpa propria o per responsabilità altrui. La sala si riempie finalmente di commensali perché i servi obbediscono al comando del re e i nuovi invitati aderiscono alla sua chiamata. Gli invitati erano tali per una scelta libera del re ma diventano commensali per una loro libera scelta. Anche qui il racconto potrebbe fermarsi. Gli indifferenti, gli indecisi o gli ignoranti (coloro che non sapevano di essere stati invitati) hanno risposto alla chiamata del re partecipando al banchetto, mentre coloro che con gratuita cattiveria si erano macchiati di omicidio sono definitivamente esclusi. Essi hanno rotto definitivamente il rapporto con il re e per questo sono eliminati. Se il racconto si fosse fermato qui il messaggio conclusivo sarebbe stato incentrato sulla risposta alla chiamata e la relativa conseguenza, perdizione o salvezza. Ma la storia continua.

La seconda parte del racconto sembra essere come un’appendice della parabola. Il contesto rimane quello delle nozze ma la questione non è più quella della chiamata e della risposta ma della partecipazione. L’invito è rivolto a tutti senza vedere la condizione morale degli invitati. I servi non avevano il compito di selezionare gli invitati ma solamente di preoccuparsi che l’invito potesse raggiungere tutti, soprattutto i più lontani. La scena non si svolge più sulla strada ma nella sala dove gli invitati sono diventati commensali. Proprio ad essi si rivolge l’attenzione del re che li osserva uno ad uno. Che non spetta ai servi fare la selezione era chiaro dal momento che avevano avuto il mandato di chiamare tutti alle nozze e di introdurre nel banchetto quelli che li avrebbero seguiti nella sala (per alcuni manoscritti antichi si tratta della camera nuziale, ovvero il talamo). L’atteggiamento del re chiarisce che spetta a lui verificare la dignità degli invitati. Tra i tanti che affollano la sala c’è uno che non ha l’abito nuziale. Non passa inosservato agli occhi del re, il quale lo chiama chiedendo conto di quella mancanza. Secondo una certa tradizione l’abito nuziale era quello che veniva dato agli invitati da colui che aveva organizzato la festa di nozze. Il re non rimprovera i servi ma il commensale che chiama «amico». Ogni domanda è un invito a riflettere e a verificarsi. Il tale non risponde chiudendosi nel suo silenzio. La sentenza finale, a ben vedere, non è una condanna per la mancanza dell’abito nuziale, che avrebbe potuto indossare in qualsiasi momento, ma per il fatto che rinuncia al dialogo e alla conversione. L’immagine finale è drammatica come quella usata per descrivere la conseguenza degli omicidi commessi dagli invitati reticenti. L’essere legato e gettato nel buio vuole indicare l’esperienza negli inferi, lontano da Dio.

La parabola va intesa nel contesto della tradizione ebraica e in quello della Chiesa nascente. Ciò che avevano annunciato i profeti si sta compiendo in Gesù Cristo, il figlio del re per il quale è organizzato il banchetto. La Pasqua è il banchetto nuziale che celebra lo sposalizio tra Dio e il suo popolo. Compiuto il tempo della preparazione, è giunto quello della celebrazione e della partecipazione. Il v. 14 sintetizza il messaggio della parabola distinguendo tra i «molti», cioè «tutti» e «pochi», ovvero «non tutti». Infatti, a tutti Dio apre le porte per partecipare al banchetto finale. Tutti siamo chiamati alla santità intesa come partecipazione alla gioia con la quale Dio ama e dona sé stesso come lo sposo fa con la sua sposa. Dio vuole introdurre tutti nella sua casa e farci partecipi della sua santità. Questo è il mistero di Dio, progetto che si realizza nella storia della salvezza grazie ai servi che si fanno portavoce del messaggio del Regno, annunciatori del Vangelo. Il loro compito è quello di chiamare e guidare verso la casa di Dio all’incontro con Lui. Tuttavia, c’è anche il mistero dell’iniquità che si manifesta platealmente non solo nell’indifferenza religiosa, ma anche nelle violenze, fisiche e morali, e nelle ingiustizie perpetrate anche nella comunità che solo apparentemente si dice religiosa. Una comunità cristiana implode su se stessa perché minata da atteggiamenti aggressivi tenuti da alcuni membri contro altri. Tutti gli invitati rifiutano l’invito. Questo vuole indicare che la tendenza al peccato accomuna tutti gli uomini che sono chiamati alla conversione. Tra i peccatori ci sono quelli che non solo non accettano l’invito a convertirsi ma addirittura diventano violenti facendo emergere in tutta la sua drammaticità il pericolo della persecuzione. Non dobbiamo dimenticare la parabola dei vignaioli omicidi nei quali i servi contadini diventano violenti e assassini. La vocazione va custodita nell’obbedienza alla parola di Dio, altrimenti degenera e si corrompe. L’abito della festa che solo il re non vede indossato dall’invitato è la condizione interiore nascosto dalla divisa che indossa e che lo qualifica nella sua identità. Il messaggio è rivolto in particolare a chi svolge un ministero che si riduce a pura operosità ma senza contenuto spirituale. Il tale smascherato è colui che, pur ricoprendo un ruolo nella Chiesa e svolgendo un servizio, confida in sé stesso e nelle sue opere piuttosto che nel Signore. In tal modo, egli può anche progredire nella «carriera» o acquisire competenze e conoscenze, ma non cambiare interiormente lasciandosi trasformare nel cuore e nella mente dalla Parola di Dio. Sicché, bloccato dal suo narcisismo spirituale, sprofonda nell’isolamento  in cui le relazioni sono solo sterili e inutili scambi di informazioni o di favori.

MEDITATIO

Beati gli invitati al banchetto dell’Agnello

Dopo le tre parabole in cui il protagonista era il padrone o il padre che invitava a lavorare nella vigna, ora è il re che organizza la festa di nozze di suo figlio. In questa parabola ritornano alcuni temi che caratterizzavano anche le precedenti, tra cui, l’invito reiterato mediante i servi e il rifiuto opposto dagl’interlocutori. La novità di questa parabola rispetto alle altre sta nell’oggetto dell’invito: non si parla più di lavoro ma della festa di nozze. Il matrimonio, simbolo del patto tra Dio è il popolo d’Israele, è l’immagine che Gesù sceglie per annunciare l’evento della passione e della morte attraverso il quale si stipulerà la nuova ed eterna alleanza tra Dio e l’uomo.

A fronte dell’entusiasmo con il quale il re invita i commensali alla festa si riscontra una generale indifferenza perché ognuno sembra troppo occupato nelle sue faccende e non ha tempo da perdere.

Non c’è un esplicito rifiuto, ma qualcosa di peggio che è la non curanza. L’atteggiamento degli invitati riflette la mentalità individualista in cui trionfa la cultura dell’“io” a scapito di quella del “noi”, che priva ogni cosa, compreso il lavoro e la festa, del suo valore sociale e comunitario per esaltare quello del piacere individuale. Senza uno sguardo che vada oltre i confini del proprio io il lavoro diventa terreno di competizione e rivendicazione e la festa un’occasione per fare sfoggio di sé. L’egoismo porta a cercare e ad accettare un lavoro in base al guadagno e a vivere la festa come forma di evasione o trasgressione dalle regole imposte dalla normalità della vita.

Se ci fermassimo semplicemente a considerare i motivi del rifiuto anche noi opporremmo un rifiuto all’invito che Gesù ci sta rivolgendo di lasciarci coinvolgere nella gioia di Dio che ci ama fino a dare tutto sé stesso. Ecco allora che, se ci lasciamo distrarre dalla tentazione di giudicare e giudicarci, il Signore ci ricorda che è tutto pronto per la festa.

L’invito alla festa di nozze è un modo col quale Dio vuole dirci che non ci considera semplici sudditi sottoposti alla sua volontà e operai che eseguono gli ordini impartiti e che non gli sta a cuore tanto quanto produciamo con il nostro lavoro, ma che ci lasciamo coinvolgere nella logica della gioia e della condivisione. Come il lavoro, anche se faticoso, è la forma più alta con la quale ci prendiamo cura di ciò che Dio ci affida ed esercitiamo la nostra responsabilità, così la festa è il fine del lavoro stesso perché è partecipazione e condivisione della Sua gioia nel darsi a noi con amore.

Il dono che Gesù fa di sé sulla croce rivela che Dio vive la festa come momento nel quale condividere la vita. Sedersi tutti attorno alla stessa mensa permette di cogliere non ciò che ci differenzia e ci contrappone, ma ciò che ci rende uguali e ci unisce. Se guardiamo ai nostri meriti o alle colpe altrui rimarremo a distanza tra noi e dalla mensa comune preferendo la solitudine alla compagnia; invece se ci riconosciamo destinatari di un comune dono gratuito più facilmente ci uniremo alla gioia di essere una comunità unita e coesa nella quale si partecipa insieme al dolore e alla gioia, alle angosce e alle speranze gli uni degli altri.

Per partecipare pienamente alla festa di nozze è necessario un cambio di abito. La veste nuziale è quella che indossiamo quando ci lasciamo trasformare interiormente dalla parola di Dio, ascoltata e meditata. Dio parla a tutti, cattivi e buoni, come fa sorgere il sole e fa piovere su buoni e cattivi. L’amore di Dio non è condizionato dalla condotta morale degli uomini, né la sua cura nei loro confronti è proporzionata ai loro meriti o alle loro colpe. La benevolenza di Dio è totale, universale e gratuita. Infatti, molti sono i chiamati, cioè tutti! Dio ci parla attraverso la storia, nella vita, con i suoi ritmi, i suoi eventi, con le relazioni umane di cui è intessuta e continuamente chiama, interpella, invita, coinvolge. Non c’è persona che possa rimanere esclusa dall’attenzione di Dio, né essere abbandonata al suo destino. Attraverso i suoi servi, Egli si fa presente dovunque, soprattutto nelle periferie esistenziali e nei rifugi digitali (chat e siti vari) dove spesso ci si nasconde per paura di coinvolgersi in relazioni significative.

L’abito nuziale non è la divisa che indossiamo nelle occasioni particolari, ma è la veste bianca che Dio ci ha dato sin dal momento in cui, battezzati, siamo stati rivestiti di Cristo, chiamati alla vita e invitati ad entrare nella famiglia della Chiesa. La veste nuziale è l’abito che indica non tanto consuetudini e tradizioni dettate dal senso del dovere, ma l’abitudine mentale che gradualmente conforma il nostro pensare e il proprio comportamento a quello di Dio. Possiamo, infatti, partecipare alle celebrazioni o agli incontri in chiesa perché vincolati dal precetto o perché qualcuno ce lo impone. L’abito nuziale altro non è che il desiderio di incontrare il Signore e condividere con i fratelli nella fede l’unico pane che Dio spezza per tutti.

Dall’eucaristia, esperienza di comunione con Dio e coi fratelli, impariamo il valore della corresponsabilità e del servizio che, da duro dovere da compiere, nel quale a volte nascondiamo le nostre frustrazioni e la rabbia, diventa gioioso e generoso dono di sé.

L’indifferentismo e il formalismo sono le due facce dell’incredulità

La parabola mette a fuoco il problema della superficialità con la quale viviamo la fede soprattutto considerando il fatto che assistiamo sempre più di frequente alla scissione tra ciò che si crede e ciò che si vive. In un contesto di crescente «indifferentismo» l’incontro con il Signore da molti è inteso rientrante più tra i doveri che tra i piaceri della vita e, ancor di meno, tra le necessità legate alla fede. D’altra parte, praticare la fede non significa solo compiere le opere che la legge ci indica ma vivere una relazione di amore personale con Dio la cui caratteristica non è differente da qualsiasi altro rapporto affettivo importante. Il dramma che si consuma nella relazione con Dio si riflette anche all’interno della vita di coppia, familiare o comunitaria in genere. L’esclusione del sentimento dalla funzione che si esercita condanna qualsiasi relazione alla sua corruzione perché senza l’amore ogni cosa si ripiega su sé stessa scivolando verso l’isolamento mortifero. L’esclusiva cura dei propri interessi crea una sorta di capsula che rende impossibile il dialogo e tutto ciò che porterebbe ad un sano confronto. L’egoismo può giungere fino ad assumere comportamenti violenti verso coloro che si presentano solamente come messaggeri di pace.

La parabola aggiunge che, oltre all’indifferentismo e all’egoismo, esiste la piaga del formalismo ipocrita di chi «pratica» ma non «crede». È come dire che ci sono due forme di incredulità e di mancanza di fede, da una parte il non «praticare» la relazione con Dio e dall’altra invece la strumentalizzazione della fede. La seconda piaga è svelata nel giudizio divino perché solo la luce dello sguardo di Dio può rendere visibile questo peccato. La colpa dell’uomo che viene «scomunicato» è quella di non indossare l’abito della festa, cioè di vivere la fede e celebrare i sacramenti ma senza i sentimenti di Dio che sono amore, pace e gioia nello Spirito. Come chiosava san Paolo nell’inno alla Carità, possiamo dire che senza l’amore tutto si corrompe ed è inutile.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna