Nel vangelo di domenica scorsa Gesù indicava tre condizioni per essere suoi discepoli: vivere la relazione sana e matura con lui rinunciando a creare legami di dipendenza con gli affetti familiari, a gettare la croce addosso agli altri, a trattare gli altri come beni di consumo. Alla rinuncia segue l’atto di fiducia, di adesione e di comunione con Dio e i fratelli, l’accettazione serena della propria condizione di fragilità e l’umile obbedienza alla parola di Gesù e infine l’uso dei beni finalizzata alla carità fraterna.
Tra coloro che sono con Gesù ci sono quelli che vanno da lui per ascoltarlo e coloro che lo scrutano per criticarlo aspramente. I pubblicani e i peccatori da una parte e dall’altra ci sono i farisei e gli scribi.
I farisei erano gli aderenti al gruppo di israeliti laici che si distinguevano per la scrupolosità con la quale eseguivano i precetti della legge mentre gli scribi erano gli esperti delle Scritture, soprattutto della tradizione legislativa. Entrambe le categorie s’ispiravano alla figura di Mosè, il profeta e legislatore. In virtù di tale autorità morale essi si arrogavano il diritto di discernere chi fosse uomo di Dio e chi no. Essi stigmatizzavano l’atteggiamento di Gesù di accogliere i peccatori e condividere con loro il pasto perché confondevano la comunione fraterna con la connivenza. La mormorazione sulla loro bocca non è solo una critica, ma è il tentativo di screditare Gesù per allontanare da lui quelli che lo seguivano.
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I detrattori di Gesù, non sono solo suoi avversari, ma sono i veri nemici del popolo perché, vestendo i panni dei giusti, creano una confusione che provoca dispersione, inquina il clima di comunione nella Chiesa. Gli scribi e i farisei sono nella chiesa coloro che accusano gli altri, per esempio il Papa, i vescovi, i preti, i cristiani in quanto tali, di essere il male della Chiesa, la causa del suo indebolimento. La mormorazione si distingue dalla critica costruttiva in base al modo col quale si compie. Una cosa, infatti, è confrontarsi ed esprimere le proprie contrarietà con rispetto e apertura al fratello, altra cosa è parlare in modo da creare agitazione e confusione, senza per altro giungere ad una conclusione o soluzione del problema.
La prima lettura presenta la figura di Mosè che prega per il suo popolo peccatore, si schiera dalla sua parte. La posizione di Mosè non è quella del giudice che, riconosciuta la colpevolezza del reo, non può che infliggere la pena, ma quella dell’avvocato che si appella all’amore fedele e misericordioso di Dio. Mosè non misconosce il peccato del suo popolo giustificando la sua colpa, ma chiede a Dio di essere giusto svuotando il suo cuore dall’ira per riempirlo di misericordia. La supplica di Mosè mira a distogliere lo sguardo di Dio dal peccato per rivolgerlo verso il peccatore.
Chi svuota il suo cuore dall’ira, che si alimenta al ricordo del torto subito, è capace di non vomitargli addosso tutto il suo disprezzo, ma di baciarlo con i baci di padre, madre, figlio, coniuge. Attraverso il bacio si condivide lo spirito, l’umanità che ci abita.
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Gesù è il vero Mosè che dalla croce invoca il Padre. Egli dall’alto del patibolo non ha lanciato sentenze di condanna ma ha donato al mondo lo Spirito Santo, che ricrea l’uomo a Sua immagine e somiglianza.
Il vangelo mette in evidenza la gioia con la quale Dio crea e ricrea l’uomo. I soggetti delle tre parabole sono un pastore, una donna e un padre. Tutti e tre protagonisti di vicende segnate da una perdita iniziale: di una pecora su cento, di una moneta su dieci e del figlio minore; ma poi finalmente ciò che è perduto è recuperato e il ritrovamento è coronato da grandi festeggiamenti a cui tutti sono invitati. Le prime due parabole dicono qualcosa che la terza tace e l’ultima parabola approfondisce alla fine ciò a cui le precedenti non accennano. Sia il pastore che la donna si mettono alla ricerca della pecora e della moneta smarrita, cosa che invece non fa il padre con il figlio minore quando va via sbattendo la porta. Il silenzio riguarda quello che il padre fa mentre suo figlio piccolo, lontano da casa, si dà prima ai piaceri e poi cade in disgrazia. Ma tale vuoto narrativo è colmato dall’atteggiamento del pastore e della donna che con ansia cercano ciò che è perduto, come Giuseppe e Maria, quando Gesù rimase a Gerusalemme a loro insaputa.
Lo smarrimento, la perdita, il distacco suscitano un’angoscia che può trasformarsi in rabbia che ispira pensieri di violenza oppure desiderio di riconciliazione che fa fare anche cose strane rispetto alla logica mondana.
Infatti il “voi” delle prime due parabole è quello degli scribi e farisei che ragionano secondo la logica della retribuzione per cui Dio è giusto nella misura in cui dà all’uomo quello che si merita. In questa logica l’uomo è ciò che fa: è buono se rispetta le norme della legge è cattivo se le viola. In verità nessuno è giusto se si raffronta alla legge, ma lo diventa solamente se si lascia amare da Dio.
La ricerca è dettata solamente dal desiderio della riconciliazione e di ritrovare la comunione. Il dolore della separazione va curato con la terapia della sana inquietudine che fa percorrere ogni via e fa sperimentare ogni tentativo pur di salvare la relazione e ricostruire la comunione.
Ciò che accomuna tutte tre le parabole è la festa nella quale la gioia di Dio coinvolge i vicini e i parenti, i servi e perfino il figlio maggiore. La mormorazione degli scribi e dei farisei riappare sulle labbra del figlio maggiore il quale è invitato anche lui alla festa e a partecipare alla gioia del padre.
Essere obbedienti alla legge, senza essere obbedienti a Dio, di per sé può al massimo procurare il piacevole orgoglio di essere migliori degli altri; presto il piacere si trasforma in triste delusione.
Il figlio maggiore è un servo triste del padre; obbedisce ai suoi comandi covando dentro di sé lo stesso desiderio di libertà malata del fratello. Il dovere per il dovere mortifica la gioia del servizio inasprendo l’animo fino al punto di essere aggressivi, giudicanti, sprezzanti verso gli altri.
I servi della casa partecipano alla gioia del padrone eseguendo i comandi dati dal padre che sembra impazzito dalla gioia. Scegliere il vestito più bello e farlo indossare, mettere l’anello al dito e i calzari ai piedi, ammazzare il vitello grasso e fare festa sono i comandamenti della gioia a cui i cristiani devono attenersi con scrupolosità. I servi di Dio non sono tristi esecutori di ordini incomprensibili, ma sono collaboratori dell’amore e della gioia del Signore.
I loro gesti traducono la misericordia di Dio che ha il potere di far rinascere come creature nuove. La Chiesa è a servizio della gioia del suo Signore; nei suoi gesti e nelle sue parole non c’è spazio per la condanna e per il giudizio ma solamente per la misericordia che recupera chi è perduto e richiama alla vita chi è morto.
Quando la chiesa si prende cura dell’uomo aiutandolo a rivestirsi della dignità di figlio di Dio e collaboratore gioioso della sua misericordia, tinge di cielo la terra.
La gioia per la Paternità e la fraternità ritrovata
Davanti al peccatore c’è chi chiede giustizia, intesa come punizione e condanna o chi, come Mosè, implora pietà. La preghiera del Profeta punta a infuocare la misericordia di Dio mediante il ricordo della promessa d’amore fatta all’uomo. Ricordare il proprio impegno d’amore vuol dire alimentare il fuoco della misericordia che il peccato dell’uomo rischia di spegnere. Gesù è il profeta che ricorda al Padre che è Lui la fonte dell’amore e agli uomini di essere terra fecondata dall’acqua della Sua misericordia. La preghiera converte il cuore di Dio e ha il potere d’invertire le sorti dell’uomo che con il peccato si autocondanna a perdersi. Chi si avvicina a Cristo, lo segue ed entra in amicizia con lui si converte e trasforma la condanna per il suo peccato in festa per la sua scelta di vivere come Gesù, il figlio di Dio. Il Vangelo è il canto della gioia del Padre che ritrova suo figlio e la gioia dei figli che ritrovano la fraternità.
Paolo è testimone della forza con la quale la Grazia di Dio ha agito in lui. La misericordia lo ha reso servo di Dio lui che prima era schiavo del peccato di egolatria. L’apostolo riconosce gli effetti salvifici della Pasqua che in lui diventano segno di speranza per tutti coloro che sono chiamati alla fede mediante la sua predicazione. Essa non è fatta innanzitutto di discorsi ma dalla condivisione delle esperienze di vita, molte delle quali dolorose, che lo hanno conformato a Crocifisso, Sposo dell’umanità. Dalle parole di Paolo traspare la gioia della conversione, esperienza della misericordia di Dio che cambia il cuore perché si sia capaci di misericordia.
È inimmaginabile la gioia di Dio per ciascun uomo che si converte dalla schiavitù del peccato alla libertà. Dio vuole contagiare di gioia i giusti. Anch’essi devono convertirsi, sì, convertirsi alla gioia di Dio. Una giustizia che si riduca alla semplice applicazione di norme ma che non si traduce in relazioni di amore fraterno di accoglienza e di compartecipazione, non è giustizia di Dio.
Tutti siamo peccatori. C’è chi nelle parole e nelle azioni e chi nei pensieri, anche se nell’apparenza si è giusti. La beatitudine, simboleggiata dalla festa, non è il premio ai meritevoli ma è un dono che fa sperimentare la gratuità dell’amore di Dio ed educa a vivere i rapporti fraterni con misericordia. La gioia del Vangelo è molto diversa da quella mondana e della quale di solito gli uomini si accontentano. Comunemente la gioia è legata al possesso di qualcosa mentre per Dio è unita all’amore, quello che non si arrende davanti a nulla e che ricerca ostinatamente la comunione. Gioire per un peccatore convertito è ciò che di più “inutile” ci possa essere. Su questo convengono Gesù e coloro che mormorano contro di lui anche se il significato dell’inutilità di quella gioia dipende dal punto di vista con il quale si osserva l’altro e dalla qualità dell’amore. L’amore vero è di per sé “inutile” perché non suggerisce la ricerca del proprio interesse ma orienta il desiderio della riconciliazione e della comunione verso cui tende ogni sforzo e impegno. Solo la nostalgia dell’unità motiva scelte che agli occhi dei più appaiono scandalose. Eppure, basterebbe assumere il punto di vista di chi si è smarrito, per avvertire la gioia di sentirsi amati gratuitamente e senza una finalità ulteriore che sia la propria felicità. La gioia di chi ama è tanto più grande quanto lo è quella di chi sperimenta l’amore che perdona, sana e libera. Chi rimane tra coloro che si ritengono giusti e non bisognosi di aiuto, ma piuttosto meritevoli di attenzioni o riconoscimenti, difficilmente sarà capace di una gioia sincera e soprattutto di condividerla con gli altri.
Signore Gesù, Tu sei il Vangelo della gioia perché in Te Dio si fa pellegrino in ricerca dell’uomo perduto per recuperarlo alla comunione. Ti ringrazio perché con il tuo amore rispondi al mio più intimo desiderio di pace e fraternità. La tua Parola mi aiuti a riconoscere la mia dignità di figlio di Dio, a scoprire la mia vocazione, ad esprimere la mia preghiera con la quale invocare la misericordia del Padre per lasciarmi trovare e farmi curare da Lui. Il tuo Spirito mi renda missionario della gioia che non richiede alcun prezzo da pagare se non quello della rinuncia alla presunzione di salvarsi da sé e all’orgoglio che allontana e scandalizza i più piccoli, i prediletti del Padre.
Commento a cura di don Pasquale Giordano
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]