don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 10 Luglio 2022

1092
Commento a cura di don Pasquale Giordano
FonteMater Ecclesiae Bernalda
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]

Lectio divina

La pagina evangelica di questa domenica propone un dialogo tra un dottore della Legge e Gesù. L’esperto del testo sacro approccia il Maestro di Nazaret con intenzioni polemiche e per metterlo alla prova gli pone una domanda dal sapore sapienziale: «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Il tranello che il dottore della Legge vorrebbe tendere a Gesù è finalizzato a dimostrare che egli si presenta come un maestro il cui insegnamento è parallelo a quello della Legge. Invece Gesù, che è veramente il Maestro, non dà risposte ma invita a porre quesiti alla Legge perché essa possa rispondere con la Parola di Dio. Infatti, la controdomanda di Gesù rivela il fatto che egli stesso si sottomette alla Legge. Il dottore della Legge risponde saggiamente riassumendola nel precetto dell’amore a Dio e al prossimo (Dt 6,5. Lv 19,18).

Il dialogo tra i due sembra concludersi con l’invito di Gesù a mettere in pratica la Legge per ottenere la vita. Quella del dottore della Legge che si presenta come una persona in ricerca della felicità, al netto delle motivazioni per le quali è posta, è una domanda fondamentale perché predispone il cuore, sede del discernimento morale, a fare le scelte più opportune. L’interlocutore di Gesù comprende che la sua domanda iniziale era retorica perché, quale dottore della Legge, avrebbe dovuto interrogarla mettendosi in ascolto della Parola. La Legge è la Parola di Dio che indica la via della vita felice. Non basta però sapere quale sia la volontà di Dio ma è necessario metterla in pratica.

Chi ama Dio impara ad amare anche il prossimo. Il dottore della Legge, resosi conto di aver fatto una brutta figura con Gesù, anche se ha risposto esattamente alla sua domanda, corregge il tiro ponendo un secondo quesito riguardante l’amore al prossimo. Si aspetta che Gesù gli risponda, come ha fatto lui, citando la Legge. Invece Gesù replica con un racconto. Nella tradizione ebraica la Parola di Dio si rivela in due forme: la Legge (Halakà, termine che indica il cammino) e la Storia (Haggadà, che significa racconto). Dio insegna (Torah, letteralmente vuol dire insegnamento) innanzitutto attraverso la storia da cui viene la Legge, quasi come frutto di un processo di distillazione. Dio si fa prossimo all’uomo con la sua Parola narrante, mediante la Legge, la storia e, finalmente attraverso Gesù. La parabola narra una vicenda che si svolge prima lungo un sentiero e poi in una locanda. Protagonista della parabola è l’uomo che è in viaggio e che cade nell’imboscata dei briganti. La strada è l’immagine della condotta di vita ispirata alla Legge.

La vita, considerata pia e devota, non è esente da rovinose cadute. Il tranello dei briganti rappresenta quella situazione in cui può venirsi a trovare qualsiasi persona che viene colpita da una disgrazia. Tanti sono i motivi per cui i programmi di vita possono essere sconvolti e la sorte personale essere ribaltata. Non si dice nulla di quell’uomo se non il fatto che camminava da solo. Questo particolare, che si deduce dal racconto, sottolinea il pericolo della solitudine. Potremmo leggervi un riferimento al fatto che i missionari erano stati inviati da Gesù a due a due. Un cammino da solitari riserva sorprese negative. La storia continua presentando, uno dopo l’altro, due personaggi. Il sacerdote e il levita sono accomunati dal fatto di appartenere all’apparato sacrale, dal percorrere la medesima strada e dall’atteggiamento indifferente riservato al malcapitato.

Entrambi uomini la cui funzione cultuale li metteva a stretto contatto con Dio, ma che mantengono alla larga dall’uomo che versa nel bisogno. Gesù non dice nulla dell’interiorità del sacerdote e del levita ma si limita a descrivere il loro atteggiamento freddo e distaccato. La situazione cambia quando arriva un Samaritano. Da parte giudaica il pregiudizio nei confronti dei Samaritani affonda le sue radici nella storia d’Israele allorquando la Samaria fu colonizzata dagli Assiri che furono gli artefici della prima deportazione e della successiva implementazione straniera in quel territorio. Da quel momento dire Samaritano significava dire straniero, impuro, empio perché la contaminazione pagana aveva fatto perdere l’“integrità” della fede. Eppure, proprio quest’uomo riserva delle sorprese perché, contrariamente a quello che avevano fatto il sacerdote e il levita, rappresentanti dei pii d’Israele, egli, passando vicino all’uomo per terra mezzo morto, lo vede e ne ha compassione. La visione di un uomo per terra sconvolge il suo animo al punto da costringerlo a cambiare programmi e fermarsi per prestare soccorso.

La compassione determina un coinvolgimento totale della persona che si mette a completo servizio del malcapitato. Il Samaritano riserva all’uomo sofferente la stessa attenzione che la Legge, citata dal dottore della Legge, indicava con il comando di amare Dio con tutto sé stesso. La seconda scena della parabola si svolge nell’albergo o locanda dove entrambi trovano rifugio e ristoro. Qui avviene un passaggio di testimone. Il Samaritano coinvolge nell’opera anche l’albergatore al quale dà una caparra con l’impegno di ricompensarlo al suo ritorno. Dopo il racconto della parabola il maestro pone la domanda al dottore della Legge ribaltando la prospettiva del suo quesito. Lui, infatti, chiedeva chi fosse il prossimo da amare per adempiere la Legge mentre Gesù lo invita a riconoscere il prossimo che lo ama. Il prossimo è colui che si è lasciato guidare dalla compassione.

Nella figura del Samaritano si delinea la fisionomia del volto di Dio che non è indifferente davanti al dramma dell’uomo peccatore ma si fa al lui prossimo e si prende cura di lui per salvarlo dalla morte. Il volto del Samaritano riceve un nome quando Gesù offre la sua vita sulla croce. È lì che Egli rivela il vero volto di Dio, il Dio dell’amore misericordioso. Come ricorda s. Paolo nella seconda lettura, Gesù, vera icona del Dio invisibile, è la Parola che ci fa conoscere e sperimentare Dio come Padre. Gesù, per mezzo del quale sono state create tutte le cose, è la Parola di Dio che guarisce dal peccato, ci salva restituendoci la vita. Alla luce del mistero della salvezza realizzato in Gesù, comprendiamo il significato del Deuteronomio che rassicura del fatto che la felicità non consiste nel ricercarla chissà dove, ma semplicemente nell’accoglierla nutrendoci della Parola di Dio e meditandola nel cuore.

In questo modo sperimenteremo il potere terapeutico e consolante della parola ma anche la sua forza creatrice perché essa orienta le scelte del cuore verso i fratelli. Amare Dio vuol dire accoglierlo in ogni aspetto della nostra vita affinché possa trasformare il nostro cuore rendendolo capace di amore compassionevole e motore che determina il movimento verso i fratelli, soprattutto quelli più deboli e poveri.   

Esperti in amore fraterno

Il pericolo più grande che può correre l’uomo è di anteporre le regole alla vita. A maggior ragione per un cristiano che fa della sua vita una missione d’amore. Il dottore della Legge è il classico “esperto” che presume di avere una risposta per ogni domanda e non si mette in sincera ricerca della volontà di Dio né predispone il suo cuore ad ascoltare l’A/altro. Lo dimostra il fatto che non interroga Gesù per conoscerlo meglio ed entrare in una relazione più intima con lui, ma per metterlo in difficoltà e tendergli un tranello. S. Paolo ricorda che la scienza, ovvero la conoscenza fine a sé stessa, gonfia di orgoglio mentre la carità edifica (1Cor 8,2).

Si percepisce la diffidenza che pervade la mente del dottore della Legge e il suo pregiudizio nei confronti di Gesù. La presunzione opera un’indebita scissione tra fede e vita, tra il Dio in cui si crede, anche senza vederlo, e il fratello che si vede senza amarlo. La fede è campata in aria, quindi senza radici, se non si traduce in carità fraterna che nasce solo da un cuore che rinuncia a giudicare e in cui c’è solamente posto per la misericordia. Il dottore della Legge è l’immagine di chi è convinto che la giustizia consista nell’applicare le regole senza guardare in faccia nessuno. In realtà, la parabola ci suggerisce la necessità assoluta di cercare il volto del fratello per trovare quello di Dio.

Egli, infatti, cerca sempre il confronto, il dialogo con noi; per questo si fa prossimo e ci parla “bocca a bocca”, “cuore a cuore”. Contrariamente ai funzionari del sacro che si limitano a guardare a distanza e a continuare il loro cammino come se niente fosse, il Samaritano, nel quale Gesù si identifica, si avvicina non per curiosità ma per compassione. Non cerca di sapere cosa sta accadendo e perché è accaduto ma di comprendere come sta quella persona e come può aiutarla. La compassione ha veramente una forza rivoluzionaria che sconvolge innanzitutto il cuore di chi ne è posseduto.

Chi ama si pone difronte al tu, instaura un contatto visivo che poi pian piano coinvolge tutto l’essere, mente, anima e corpo. Tra le righe appare chiaro l’invito di Gesù a cambiare prospettiva. Prima di domandarsi cosa è giusto fare bisogna interrogarsi: come Dio si sta facendo prossimo a me? Cosa mi sta dicendo e sta facendo per me? Ciascuno di noi è quell’uomo nella cui disgrazia riconosciamo le nostre cadute, le nostre ferite, i nostri fallimenti, le nostre delusioni. Solo assumendo il punto di vista del malcapitato posso riconoscere che la mia vita, sebbene segnata da tante prove, è anche oggetto di cura e di attenzione di persone nel cui volto posso intravedere i lineamenti di quello di Dio.

L’uomo ferito non è solo debitore di riconoscenza al Samaritano ma anche all’albergatore che ha continuato a curarlo durante la sua assenza. La via della felicità passa attraverso quelle ferite che ci lasciamo guarire dalla misericordia di Dio e dalle opere di Carità della Chiesa. Le ferite di noi uomini peccatori sono diventate anche quelle di Dio, benché innocente. Esse sono come lettere dell’alfabeto con le quali la Legge della Carità viene scritta nel nostro cuore.

Signore Gesù, Parola di Dio che ridona il gusto della vita e che conforta i cuori degli afflitti, ti ringraziamo perché ci fai sperimentare il grande amore del Padre. Egli, giusto e misericordioso, non giudica o condanna i peccatori ma cerca ciascuno dei suoi figli per riscattarlo dalla schiavitù della colpa restituendogli la libertà e la dignità. Guarisci la nostra ansia di prestazione e convertila in zelo apostolico che ha come unico fine quello di compiere la Sua volontà. Tu che ti offri a noi come Maestro di Sapienza e Guida nel cammino della Giustizia, fa che possiamo seguirti nella fiduciosa obbedienza al Padre e imitarti nella operosa carità verso i fratelli. Insegnaci a rinunciare ad ogni forma di giudizio e al tentativo di definire gli altri ma istruiscici nell’arte della compassione che abbatte le barriere della diffidenza, erette sulla paura, per costruire ponti di dialogo e di aiuto reciproco. Donaci l’umiltà di lasciarci prendere cura, fuggendo la presunzione di salvarsi con le proprie forze, e la docilità con la quale farci educare dai testimoni riconosciuti come maestri di vita. Ispira in noi sentimenti di fiducia perché la speranza animi il coraggio di non limitarci ad essere funzionari del sacro, affaccendati in tanti affari, ma creativi nel bene e fedeli alla missione che ci affidi di essere custodi della vita gli uni degli altri.