don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 1 Ottobre 2023

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Il sorpasso sulla via della giustizia – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Dal libro del profeta Ezechièle Ez 18,25-28

Se il malvagio si converte dalla sua malvagità, egli fa vivere se stesso.

Così dice il Signore:

«Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?

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Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso.

E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

Vocazione comune e responsabilità personale

Il profeta Ezechiele aveva seguito il popolo nell’esilio di Babilonia. Raccoglie le lamentele contro Dio e replica invitando a verificare sé stessi e il proprio operato piuttosto che giudicare quello del Signore. Infatti, a ben guardare la lamentela è quella forma di colpevolizzazione degli altri per evitare di assumersi le proprie responsabilità. Il vittimismo è una tentazione che silenziosamente si fa strada nel tempo della prova.

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Di per sé la vittima è un innocente perseguitato, ma quando nella persecuzione risponde con le stesse armi dell’accusatore, allora diventa a sua volta persecutore e giustiziere. La giustizia non consiste nell’esigere quanto spetta di diritto ma nel volgere al bene anche il male che si subisce. Il vittimista crede di soffrire ingiustamente per colpe non sue e di scontare la pena di peccati non commessi. In realtà Ezechiele ricorda che tutti gli uomini sono peccatori e che soffrono a causa dei loro stessi peccati. Il giudizio spegne ogni fiamma di speranza di riscatto che invece viene ravvivata e alimentata dalla fede che apre al pentimento e al perdono. La prova ha una forza educativa tale che ci aiuta a prendere le distanze dalle abitudini cattive per assumerne di migliori che si traducono in gesti di carità fraterna.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési Fil 2,1-11

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù.

Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi.

Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:

egli, pur essendo nella condizione di Dio,

non ritenne un privilegio

l’essere come Dio,

ma svuotò se stesso

assumendo una condizione di servo,

diventando simile agli uomini.

Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò

e gli donò il nome

che è al di sopra di ogni nome,

perché nel nome di Gesù

ogni ginocchio si pieghi

nei cieli, sulla terra e sotto terra,

e ogni lingua proclami:

«Gesù Cristo è Signore!»,

a gloria di Dio Padre.

Felice obbedienza

La consolazione che Paolo chiede di ricevere dai Filippesi, mentre egli è in carcere, è la notizia che essi si vogliono bene come fratelli gareggiando nel prendersi cura con umiltà gli uni degli altri. Sapere che c’è una comunità di credenti che pratica il vangelo mediante la carità fraterna è per l’apostolo motivo di gioia che lo conferma nel suo servizio al vangelo. Il modello è solo Gesù Cristo il quale, per amore al Padre, ha vissuto la condizione di essere Dio non come un privilegio di cui far pesare l’autorità sugli uomini, ma come la via per farsi piccolo al fine di raggiungere ogni uomo e amarlo con tutto sé stesso.

L’amore fraterno non può diventare realtà senza assimilare i sentimenti di Gesù che, nella prova, ha messo da parte il suo interesse personale per il bene comune dei suoi fratelli peccatori.

Davanti al grande amore di Dio per l’uomo che si è manifestata nella morte e risurrezione di Gesù non si può rimanere bloccati e silenziosi ma bisogna piegare le ginocchia in segno di adorazione e confessare con le parole e le opere che Gesù è veramente il Signore della nostra vita.

+ Dal Vangelo secondo Mt 21,28-32

Pentitosi andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 28“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. 29Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. 30Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. 31Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?”. Risposero: “Il primo”. E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. 32Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli.

Lectio

Contesto

Il viaggio di Gesù verso Gerusalemme si conclude quando, giungendo nella Città santa, entra nel santuario (21,12). Qui Gesù compie gesti profetici, insegna, risponde alle questioni teologiche sollevate da esponenti di alcune sette religiose dell’epoca. Compiuto il suo ministero nel santuario, Gesù esce per andare verso il monte degli Ulivi (24,1) dal quale pronuncerà il suo ultimo discorso (24,4-25,46).

La visita di Gesù nel santuario è inaugurata da un gesto eclatante: caccia i mercanti dallo spazio sacro (21,12-13). Dopo un breve intermezzo, nel quale si registra l’uscita dal tempio verso Betania e il ritorno nel santuario il giorno dopo con l’episodio del fico (21, 18-22), l’evangelista Matteo sottolinea che viene contestata l’autorità di Gesù (21, 23-27) il quale replica con tre parabole (21,28-22,14) che formano il secondo nucleo di parabole dopo quelle del cap. 13. Il ministero di Gesù nel santuario di Gerusalemme prosegue con quattro diatribe teologiche innescate da altrettanti interlocutori, rappresentanti del fronte che si oppone al rabbì di Nazaret; per poi concludersi con gli ammonimenti verso i farisei e il lamento su Gerusalemme.

Il contesto immediato delle tre parabole (che saranno lette di seguito nelle prossime domeniche) è il problema dell’autorità di Gesù sollevato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani (21, 23-27). I capi religiosi gli contestano la presunta pretesa messianica che lui avrebbe rivendicato soprattutto mediante i suoi gesti e le sue opere. Si tratterebbe, in ultima analisi, di verificare se il potere di Gesù sia propriamente quello del Messia atteso. Gli interlocutori vorrebbero smascherare la vera identità del Galileo. Alla domanda dei capi Gesù non risponde direttamente ma con una contro domanda che mette a fuoco l’autorità di Giovanni Battista. Anche egli compiva dei gesti inediti. Infatti, nel giudaismo erano conosciuti i bagni rituali di purificazione (per esempio a Qumran) ma era una novità che qualcuno si facesse «immergere» (battezzare) da altri. Giovanni agiva come rappresentante di Dio allo stesso modo con cui operavano i sacerdoti nell’azione cultuale, soprattutto nella benedizione. Dio, mediante il gesto battesimale, dichiarava la sua rinuncia a punire il peccato commesso fino a quel momento. Dunque, l’autorità è legata alla missione e a Colui che l’ha promossa. Le tre parabole vanno contestualizzate nell’ambito della replica di Gesù che sposta l’attenzione dalla questione della sua autorità su quella della responsabilità personale delle autorità.

Struttura

La parabola dei due figli o della vigna (la seconda con questa ambientazione dopo quella di 19,30-20,16 e che fa parte del materiale che è proprio di Matteo) è composta di appena tre versetti. Due domande (vv. 28a.31a), che provocano l’attenzione dell’interlocutore, incorniciano il racconto (vv. 28b-30) dal qual quale Gesù tra una conclusione che suona come risposta e giudizio (31b-32) alla questione rimasta aperta al v. 27 sulla sua autorità e quella di Giovanni Battista.

Le domande che introducono e concludono il breve racconto parabolico sono indice del fatto che Gesù usa lo stesso stile d’insegnamento dei rabbini dell’epoca coinvolgendo direttamente gli interlocutori e spingendoli ad esprimere un giudizio. L’immagine del padre e dei suoi due figli era molto comune nell’insegnamento rabbinico. I destinatari sono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo ovvero le autorità religiose e sociali d’Israele. Sono quelli che non avevano risposto alla domanda di Gesù circa il battesimo di Giovanni e l’origine della sua missione. Alla loro reticenza Gesù aveva replicato nello stesso modo non rispondendo alla domanda che gli avevano posta circa la sua autorità nel compiere i gesti di guarigione e di perdono, ma anche azioni provocatorie e giudicanti. Questi tali si sentivano giudicati da Gesù e a loro volta cercavano di metterlo alla prova per avere argomenti sui quali accusarlo e metterlo fuori gioco. In definitiva sembra consumarsi uno scontro tra gli uomini di potere e Gesù che esercita un potere non riconosciuto come dato da Dio. L’autorità contestata riguarda il dire e il fare di Gesù. Giovanni battista, secondo le informazioni che fornisce l’evangelista Luca, era di stirpe sacerdotale e, come tale esercitava il ministero anche se in una maniera inedita. Il Battista è stato precursore di Gesù nel disprezzo delle autorità religiose e nella solitudine prima ancora che nel martirio. Gesù ha riconosciuto in Giovanni un modello da seguire perché il suo era stato innanzitutto un esempio di obbedienza alla volontà di Dio. Il suo agire era la manifestazione operativa della parola del giusto Dio che vuole salvare i peccatori.

Il lavorare nella vigna altro non significa che esercitare l’autorità mediante la quale l’uomo viene salvato perché oggetto di cura amorevole da parte di Dio mediante i suoi servi. Questi non sono schiavi ma figli, sicché ciò di cui si prendono cura, mediante il lavoro, appartiene loro. Un semplice operaio non sentirà la vigna parte di sé e della propria vita e compirà il lavoro guardando alla ricompensa piuttosto che avere a cuore la speranza di fecondità. Il senso di appartenenza deve essere più forte del senso del dovere se si vuole coniugare parola e azione nell’unico atto di obbedienza. La vera obbedienza (fede) non consiste nella mera esecuzione ma nel fare aderire la volontà propria a quella di Dio e nell’adeguare l’intenzionalità personale a quella del Signore. Solo in Dio il bene-dire e il bene-fare coincidono perfettamente perché la Sua parola è veramente autorevole giacché ha valore performativo, ovvero, realizza quello che dice.  La giustizia di Dio coincide con la sua rettitudine d’intenzione e coerenza di azione. A tale giustizia tende l’uomo che, essendo figlio, riceve l’invito a lavorare nella vigna.

Il primo e il secondo figlio non sono da intendere in ordine di grandezza come se fossero il maggiore e il minore. Il primo figlio è colui al quale per primo fu rivolto l’invito, poi ripetuto anche all’altro. I due figli sono accomunati dalla stessa chiamata ad andare a lavorare nella vigna e dalla contraddizione che c’è tra la parola iniziale e la successiva azione. La differenza è evidentemente nel modo con il quale si fa la volontà del padre.

L’obbedienza passa attraverso la contraddizione di sé. Nella storia dell’interpretazione di questa parabola spesso si è posto l’accento sull’obbedienza dell’uno, che rappresenterebbe i figli della Chiesa, e la disobbedienza dell’altro che invece impersonerebbe i figli d’Israele. Questa linea interpretativa finisce solo ad alimentare contrapposizioni inutili.

La parabola sembra invece insistere sul senso dell’obbedienza e sulla fatica che essa richiede nel «rinnegare sé stessi» e superare la paura legata al peso del lavoro nella vigna. Esso richiama alla mente la benedizione di Dio data al primo uomo di coltivare la terra e il successivo peccato, inteso come rifiuto del comando-benedizione. Il primo uomo non è solo un peccatore, come i pubblicani e le prostitute, ma, al pari loro, riesce a pentirsi e, contraddicendosi, finisce per obbedire e mettere in pratica il comandamento-benedizione. Il suo sì al padre e l’espressione del suo pentimento, più che con le parole, è pronunciato con i fatti. L’altro figlio, invece, è professa a parole la sua fedeltà a Dio ma poi la contraddice con i fatti. Le parole del primo rivelano la paura di affrontare una giornata di lavoro faticoso e incerto nei risultati. Si tratta della paura di ogni uomo davanti al dramma della fatica del vivere, della sofferenza che accompagna l’agire quotidiano di ognuno, e della morte. Nel segreto avviene qualcosa che cambia interiormente l’orientamento della volontà. La paura è vinta dall’amore che coglie nella parola del padre la voce del suo cuore che ama e vuole la felicità dei suoi figli. Forte di questa convinzione di fede, l’uomo è capace di vera conversione per percorrere la via della giustizia che porta ad impegnarsi per il Vangelo fino a dare la vita. Anche Giovanni battista e Gesù stesso hanno sperimentato la lotta interiore e il pentimento, inteso come l’atteggiamento di chi si fa povero e si consacra totalmente alla volontà di Dio.

L’autorità di Gesù, come prima di lui fu per il Battista, si è manifestata nella passione, quando ha affrontato la prova sentendo tutto il peso della fatica ma soprattutto confidando nel Padre.

La passione di Gesù è un richiamo forte del Padre con il quale invita tutti, soprattutto chi esercita l’autorità sotto il peso della prova, a confidare in Dio traducendo in servizio fino alla morte, se necessario, la sua parola di vita. 

Imparando ad obbedire a Dio insegniamo ad amare i fratelli

La parabola dei lavoratori ingaggiati a tutte le ore, che abbiamo ascoltato domenica scorsa, ci ha fatto riflettere sulla bontà di Dio che si manifesta nell’atteggiamento del padrone di casa che esce più volte nell’arco della giornata lavorativa per mandare nella sua vigna quanti più operai possibili. Nel momento della ricompensa quelli che erano stati chiamati per primi pensano di ricevere un salario maggiore rispetto agli ultimi, ma vedendosi trattati allo stesso modo, si ribellano accusando d’ingiustizia il padrone. La prima lettura di questa domenica, tratta dal profeta Ezechiele, inizia proprio dal malumore di quelli che non comprendono l’atteggiamento di Dio e mormorano contro di Lui accusandolo di una condotta ingiusta. Sia il profeta Ezechiele che Gesù si rivolgono a quelli che hanno consapevolezza di essere “primi” perché ricoprono incarichi di responsabilità come «i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo». Qual è la prima responsabilità delle autorità? È l’obbedienza a Dio. Per poter essere leader e amministrare la giustizia, bisogna innanzitutto saper ascoltare Dio. Il modello è Gesù Cristo che, pur essendo della stessa condizione di Dio … si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha sovraesaltato. L’uomo giusto non è quello che ha sempre in bocca la Parola di Dio, o che giudica in nome suo, ma colui che, meditandola ogni giorno, le permette di penetrare piano piano nel cuore. Obbedire non significa non sbagliare, ma ascoltare e lasciarsi guidare dalla Parola di Dio, anche quando non si comprende quale sia la sua volontà. Infatti, il primo figlio agisce d’istinto facendo prevalere la sua volontà, ma l’invito ad andare a lavorare nella vigna che il padre gli ha rivolto lo mantiene nel cuore, se lo ripete dentro e alla fine si convince a dire con i fatti il suo sì.

La legge non ci appare facile da mettere in pratica e siamo sinceri quando opponiamo resistenza perché siamo consapevoli dei nostri limiti. Le esigenze del Vangelo, che sono le stesse dell’amore, ci appaiono superiori alle nostre forze e abbiamo ragione perché da soli non riusciremmo a perdonare, ad amare fino alla fine, a non rispondere al male con il male. È normale che la nostra prima risposta alla chiamata di Dio sia no. Chi riuscirebbe con la sola forza della sua volontà a «svuotare sé stesso», «farsi povero» e sacrificarsi per i peccatori e gli ingrati? Nessuno! Eppure, se ci lasciamo pungere dalla Parola di Dio riusciamo a fare un percorso di conversione attraverso il quale, istruiti da Gesù, possiamo assumere i suoi stessi sentimenti, perché il Vangelo è come il bacio sulle labbra attraverso il quale lo Spirito di Dio da Lui passa a noi. Il lavoro nella vigna, ovvero il servizio d’amore agli altri come quello di Cristo e insieme a Lui, è possibile solo se animato dallo Spirito Santo.

I sentimenti di Cristo, amore e compassione, vengono assimilati nella misura in cui, metaforicamente parlando, si esercita più il senso dell’udito e meno quello dell’olfatto, della vista e del tatto. Infatti, soprattutto chi esercita un’autorità e si assume delle responsabilità, è più esposto alla tentazione di lasciarsi guidare dal “fiuto degli affari remunerativi” o dalle “luci abbaglianti del potere e della fama” che alimentano bramosia di “stringere” qualcosa o qualcuno tra le mani. L’olfatto e la vista istintivamente muovono i passi verso un oggetto da prendere e divorare per possedere. Da qui nascono i sentimenti di rivalità e vanagloria.

L’obbedienza è la virtù fondamentale per amare il cui movimento è opposto a quello dell’afferrare e divorare. Obbedire significa fare un cammino di conversione che comporta da una parte lo “svuotamento” del proprio io con la scelta di farsi poveri, mancanti, bisognosi dell’altro, e dall’altra parte l’opzione di fidarsi di Dio e lasciarsi istruire da Lui.

Gesù è il primo figlio che diventa il primogenito di molti fratelli, l’uomo giusto perché, ascoltando la voce del Padre, aderisce alla sua volontà e si dona totalmente sulla croce. Il Vangelo ci invita ad indirizzare i nostri passi sulla «via giusta» lì dove il Signore ci chiama a servirlo e amarlo anche se questo comporta non una rinuncia alla nostra volontà ma l’adesione alla sua per essere nella comunità tutti unanimi e concordi.

Dio non ci giudica dal curriculum delle buone azioni fatte perché lo prescrive la legge, ma perché, pur con difficoltà e facendo i conti con la nostra debolezza, abbiamo saputo ascoltare la voce di Dio in quella dei fratelli, anche di quelli più fastidiosi o le cui richieste sembrano essere esorbitanti rispetto alle nostre forze. Non si è mai in ritardo per imparare ad ascoltare e recuperare il tesoro delle relazioni che rendono la nostra vita veramente bella e luminosa.

La prova dei fatti (martedì III Avvento)

La piccola parabola narrata da Gesù prima che essere un’esortazione a credere è un invito a ricredersi. L’orgoglio ci acceca, impedendoci di vedere la verità su noi stessi, e ci condanna alla superficialità dell’apparenza ricca di chiacchiere ma povera di fatti concreti. Spesso, anche se avvertiamo il desiderio di cambiare, non accettiamo il fatto di aver bisogno di convertirci ovvero di orientare il cambiamento verso la relazione riconciliata con Dio. Aborriamo la fatica di cambiare noi stessi e preferiamo dispensare consigli su come il mondo dovrebbe cambiare. Se un mutamento desideriamo esso è nella linea dei nostri interessi e se un lavoro accettiamo esso è subordinato ad un guadagno immediato. Ricredersi significa cambiare obbiettivo d’interesse, dal proprio io egoista a Dio e, conseguentemente, ai fratelli. I due figli sono l’esempio di chi è capace di fare questo passaggio e riesce a vincere il suo egoismo compiendo la volontà di Dio concretamente, mentre l’altro l’adempie solo a parole ma alla prova dei fatti antepone il suo volere a quello del padre. L’orgoglio ci fa credere di essere migliori degli altri al punto da disprezzare chi invece dovremmo imitare. I peccatori pubblici sono la dimostrazione evidente della malvagità che è presente in ogni uomo, anche in chi in apparenza sembra giusto. Lo è infatti agli occhi di chi si ferma alla forma, ma Dio vede la sostanza e gradisce il sacrificio del proprio orgoglio sull’altare dell’umiltà. Confessare il proprio peccato e supplicare l’aiuto di Dio per fare la sua volontà è il culto gradito al Signore. Possiamo compiere la volontà di Dio solo se, ricredendoci, porremo il vanto non sulle nostre intenzioni, che spesso si fermano a vuote dichiarazioni, ma sulle scelte concrete, soprattutto quelle che nascono dall’umile rinnegamento di sé e dal pieno abbandono in Dio.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna