Siamo tutti rabdomanti in cerca di una sorgente in grado di donare il senso del vivere e il modo di trattare gli anni che ci cadono addosso.
Questa donna, – in quanto samaritana nemica giurata dell’establishment religioso israelita – è in cerca di quell’acqua capace di compierle il cuore. E Gesù, rabdomante del desiderio del cuore dell’uomo, si siede ad attenderla, e dinanzi alla finitezza d’un pozzo, le mostra l’abisso d’una sorgente.
Facciamo spesso esperienza di pozzi e pozzanghere. Possiamo tutto, possediamo il superfluo, ‘abbiamo troppo pane, tanto che la sazietà non ci basta più’, ma rischiamo di non sapere per quale motivo stiamo su questa terra.
Entrambi sono convinti che esista un Dio capace di donare senso all’esistere, ma la questione è ‘quale Dio?’. Quello della religione legato a un tempio – di Gerusalemme o sul monte Garizim che sia – o quello Spirito che abita la creazione intera e che con amorevole cura la guida verso il compimento?
Gesù dà la sua risposta, affermando che del suo Dio – in grado di dissetare la vita – se ne può far esperienza ‘in spirito e verità’, e non ‘su questo monte o a Gerusalemme’. Ossia, non sarà mai una religione ad assicurarci la salvezza e la possibilità di esaurire l’incontro col divino. L’Assoluto (letteralmente ‘ciò che è slegato da’) sta sempre oltre ogni forma di religione storica. La questione è fare esperienza, ‘entrare dentro’ al divino che ci abita, nello spirito e verità più profonda che è in noi. Lo intuì già Paolo in Atti: “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (17, 28).
Le religioni passano, e con esse tutto il loro armamentario cultuale, rituale e dogmatico; ciò che rimarrà è lo Spirito, l’acqua viva (v. 10) che sgorga dalla nostra sorgente. Questa è la ‘verità’, che assume la forma di libertà, «la forma di una persona, ed è pronta a prendere per mano ciascuno di noi affinché diventi come Dio, una persona che vive in libertà, fondata nell’amore, dipendente in quanto creatura, ma chiamata all’infinità» (Drewermann).