«Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola» (Eb 12, 18s.).
Questo passo della seconda lettura di oggi, ricorda ai cristiani come al tempo di Mosè circolasse un’idea di Dio capace di incutere ‘timore e tremore’, arrivando ad auspicare che quel dio arrivasse a non rivolgere più loro la parola. Questa immagine del dio terribile era veicolata da un sistema gerarchico, che – oltre al fatto di porsi come mediazione tra cielo e terra – faceva della paura il mezzo favorito per gestire le masse e quindi il fatto religioso: al tempo di Gesù era ben strutturato: il Sinedrio all’apice, a seguire gli anziani del Tempio e gli scribi, ovvero i teologi della legge e della morale, e poi i farisei. Alla base della piramide uomini e donne, la massa indistinta dei fedeli.
Gesù, è venuto a dire e a mostrare, come questa immagine di Dio fosse chiaramente blasfema. Egli ha sempre denunciato ogni gerarchia che presumesse di collegare cielo e la terra, e quindi ogni mediazione umana e chiunque si arrogasse il diritto di farsi guardiano delle cose di Dio. Tra Dio e i suoi figli non esistono mediatori: «Quando pregate dite Padre» (Lc 11, 2), e si ‘conoscerà’ Dio solo nella misura in cui si ‘conoscerà’ l’uomo, nella fattispecie il più povero e indigente.
Il Concilio Vaticano II (1965) farà sua questa certezza evangelica: il popolo di Dio – la Chiesa – è un l’insieme di donne e uomini di per sé ‘regale’, ossia senza capi né regnanti che dominano su di essa. È il popolo re di sé stesso.
La Chiesa tutta è un popolo sacerdotale: non si danno dunque preti, vescovi, papi che possano fungere da mediatori fra l’insieme dei fedeli e la divinità perché il popolo medesimo possiede il sacerdozio, in quando tutti sono sacerdoti in virtù del loro battesimo.
E infine la Chiesa è un popolo profetico capace cioè di pensare e leggere la storia con saggezza intravedendo nell’ascoltando anzitutto della propria coscienza il cammino da seguire senza il bisogno di qualcuno che lo debba ammaestrare, dirigere e condurre dall’alto.
La Parola di questa domenica è tutta volta a rispondere alla domanda fondamentale: dove poter incontrare dunque il volto autentico di Dio? Non quello terrifico impiegato da alcuni a proprio uso e consumo, ma quello narratoci da Gesù di Nazareth?
Non in un cielo che si dà a noi attraverso mediazioni umane che sotto condizione (morale, cultuale, rituale…) si arrogano il diritto di aprirne o sbarrarne le porte. (cfr. Mt 23, 13), ma piuttosto nell’uomo assetato e affamato.
Il Vangelo di oggi è inequivocabile a riguardo.
La società che viene auspicata dal nazareno – conforme al sogno di Dio – non è quella formata da un gruppuscolo religioso certo di stare dalla parte di Dio o peggio ancora che Dio stia dalla propria, ma quella dove a tutti è dato sedersi alla medesima mensa per poter condividere i beni della terra, e fare festa attraverso il reciproco perdono, senza distinzione tra ricchi e poveri, gerarchie e ‘fedeli’, santi e peccatori.
«Questo è l’esser cristiani. Il nome di Dio viene dopo. È meglio che non si pronunci, per ora, perché ci imbroglia, e perché reintroduce un’idea creata dalla classe del potere. Solo se io amo il povero posso pensare a Dio senza sbagliare. Se non penso all’uomo, penso a Dio sbagliando. Questa è la verità che viene dal Vangelo» (Ernesto Balducci).
AUTORE: don Paolo Squizzato
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