«Si hanno due vite. La seconda comincia il giorno in cui ci si rende conto che non se ne ha che una» (Confucio).
Noi abbiamo la possibilità, qui ed ora di fare della nostra vita un paradiso o in inferno. Perché l’inferno o il paradiso hanno a che fare col momento presente, con la storia, e soprattutto con le nostre relazioni.
Nella parabola di oggi, il ricco è un solo, talmente solo da non avere nemmeno un nome. Lo si definirà in seguito epulone, aggettivo ma non nome proprio. Egli è definito da ciò che ha e fa, mangia lautamente vestendo splendidamente. Invece il mendicante ha un nome, Lazzaro.
Il ricco è un solo, solo come un cane. Accanto a Lazzaro invece stanno dei cani, che gli alleviano la sofferenza. Gli animali sanno benissimo cos’è il bene, e per gli umani una compagnia del genere ha già il sapore di paradiso.
Il ricco epulone è come cieco, non vede chi bivaccava alla sua porta. Ha occhi solo per ‘la sua roba’, per dirla con Verga. Ma la roba l’ha fregato, pensando che fosse il tutto, il necessario per vivere. Un assoluto. Invece alla porta ci sta dell’altro: l’altro che chiede di venire alla luce, di essere visto e di essere sfamato.
La roba ci offusca la vista e il cuore, pensando che la vita, che si nutre di cose, sia l’unica che abbiamo. E la difendiamo coi denti, minacciando chi ce la tocca. E la ingrassiamo, coccoliamo, inganniamo.
Ma di vite ne abbiamo due, la seconda quella che lasciamo fuori, disprezzata e ferita sta morendo di fame e reclama solo di essere vista. È il nostro vero Sé, la matrice di cui siamo fatti, Ciò che emergerebbe qualora l’ego si dissolvesse. Il divino di cui il nostro bios è manifestazione.
Solo qui ed ora possiamo prenderci cura di quel Lazzaro che è la nostra sorgente interiore. Domani sarebbe già troppo tardi. Ora è necessario nutrire il nostro essere spirituale, ferito e abbandonato, perché troppa cura abbiamo riservato a ciò che alla fine sarà solo vapore.
«Per quale ragione il mio Sé è un deserto? Ho forse vissuto troppo al di fuori di me, nelle persone e nelle cose? Perché ho evitato il mio Sé? Non ero forse caro a me stesso? Eppure ho evitato il luogo della mia anima. Dopo che non ero più le cose e le altre persone, ero i miei pensieri. Non ero però il mio Sé, che si contrappone ai miei pensieri. Dovrei dunque elevarmi anche al di sopra dei miei pensieri per raggiungere il mio proprio Sé. Lì conduce il mio viaggio. Esso conduce dunque lontano da persone e cose, nella solitudine. Ma è solitudine restare con sé stessi? Solitudine probabilmente solo se il Sé è un deserto» (C.G. Jung, da Il libro rosso).
AUTORE: don Paolo Squizzato
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