Alcune donne e uomini fecero per alcuni anni esperienza di Gesù di Nazareth, sulle polverose strade della Palestina. Dev’essere stata un’esperienza talmente straordinaria d’averne la vita trasformata. “Deve aver avuto l’effetto di un ridestarsi dopo un lungo sonno, come un appello ad abbandonare la non-vita per entrare nella realtà, come un lacerare sogni angosciosi, come un aprire gli occhi alla luce. Con Gesù accanto quelle donne, e quegli uomini percepirono che la vita merita d’essere vissuta, perché colma di promessa di infinito, perché finalmente amate, accolte, ridestate alla dignità, perché oggetto di amore da sempre” (Eugen Drewermann).
Chi ebbe modo di entrare in contatto col mistero dell’uomo Gesù, il tempo e lo spazio uscirono di asse. Vissero come in una dimensione altra: un eterno presente.
Noi abbiamo un sottile presentimento di cosa voglia dire vivere momenti così, “infiniti”; succede quando ci sentiamo amati, integri, in contatto col nostro Sé autentico, e in comunione con tutto e con tutti. Quando anche solo per un fugacissimo istante ci percepiamo parte di Uno che non sta sopra o accanto a noi – perché dentro e fuori, sotto e sopra ormai non tengono più – ma è noi, e noi siamo Lui, la medesima e identica essenza, materia.
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Risurrezione potrebbe quindi voler dire vivere quell’infinitesimale stato di coscienza, di consapevolezza di essere partecipi di Ciò che costituisce noi e al contempo tutto ciò che esiste, l’Uno, il Tutto. La morte – di contro – ne sarebbe dimenticanza, sogno e oblio.
Vivere da risorti vorrà dire dunque declinare nel quotidiano esistere questa consapevolezza, vivere da desti, risvegliati alla nostra vera essenza, l’essere divino.
In ultima analisi corrispondere al «divino che chiama e dona potere alla vita umana per infrangere le barriere che ci imprigionano in una percezione distorta di ciò che significa essere umani. […] mettere da parte i confini che abbiamo creato nella nostra ricerca umana di sicurezza, andare oltre questi confini ed entrare nel significato di Dio» (J.S. Spong).
Per gentile concessione di don Paolo Scquizzato
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