Il Nazareno guarda il cuore di una moltitudine di gente comune. E vi scorge messe abbondante, frutto bello da raccogliere tirandolo fuori dai gangli dell’ombra.
Ciò di cui vi è bisogno – dice Gesù – non è certamente di preti! (gli operai citati nella pagina evangelica). Di questi ahimè ce n’è fin troppi… C’è bisogno piuttosto di donne e uomini che siano mossi da compassione, e che con coraggio si pongano a fianco degli offesi della storia.
‘Dio nessuno l’ha mai visto’, ricorda Giovanni (1, 18), semplicemente perché se ne può fare solo esperienza. Nessuno vede i propri occhi, ma possiamo vedere attraverso questi.
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Il Mistero è da incarnarsi più che da contemplare. Siamo chiamati a ‘vivere da Dio’ piuttosto che ‘vedere Dio’.
Gesù invita dunque a incarnare Dio vivendo da Dio: guarite, risuscitare, sanate, date…
E per questo mette insieme una compagnia di uomini di cui abbiamo anche i nomi… tutti maschi. Ma mi piace pensare che quei dodici siano solo un simbolo per indicare che sta per nascere qualcosa di nuovo, un passaggio di soglia rispetto ai ‘dodici patriarchi’ e le ‘dodici tribù d’Israele’.
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Dev’essere così: come incarnare il cuore di Dio senza che vi sia all’opera il cuore di una donna? Guarire, dare vita, sanare, donare sono tutti verbi declinati al femminile…
C’è da chiedersi cosa ci siamo persi in duemila anni di una Chiesa al maschile, patriarcale e fondamentalmente misogina…
«L’inviato è povero: un bastone per appoggiarvi la stanchezza, i sandali per andare… Non ha borsa né danaro, ma ha la pace che illumina gli occhi e la forza che regge le mani; ha delle ali d’aquila, dice la prima lettura; un supplemento d’ali, una strada verso il cielo, e una parola capace di rapire il cuore.
Ognuno, come Cristo, è crocevia di finito e d’infinito, di piedi impolverati e di ali d’aquila. La duplice missione del discepolo è: esistere per Dio, per guarire la vita. O almeno per prenderci cura, se di guarire non siamo capaci, di greggi e di messi, di dolori e di ali, di un mondo barbaro e magnifico» (E. Ronchi).
Per gentile concessione di don Paolo Scquizzato