La solennità di Cristo Re ci rivela in cosa consiste davvero la grandezza di Gesù il quale è re e Signore non perché si faccia servire e riverire ma perché, come ci ricordano la prima lettura e il salmo, lui è pastore, Colui che si prende cura di noi.
La vera signorilità di Cristo sta nel suo profondo e immenso amore per l’umanità che lo porta ad interessarsi di tutti, camminandoci accanto in ogni circostanza senza mai abbandonarci e in ogni stagione della vita anche attraverso i sacramenti che la Chiesa ci offre; prendendosi cura di noi quando cadiamo nel peccato offrendoci il perdono con il quale ci rialza e standoci vicino anche in ciò che più ci spaventa, la morte, conducendoci alla vita eterna.
Dal brano di Vangelo Gesù ci ricorda che anche la nostra grandezza dipende dal prenderci cura, da questo dipende la nostra felicità terrena ed è su questo aspetto che si deciderà ciò che diverremo nell’aldilà, se saremo gioia eterna cioè paradiso oppure solitudine eterna cioè inferno! L’esistenza si gioca sul prenderci cura di due aspetti: del rapporto con Dio e delle relazioni con le persone.
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La solennità con la quale si conclude il tempo liturgico e che ci traghetta verso uno nuovo con l’inizio dell’avvento, ci chiede di porci qualche domanda: io di chi e di cosa ho cura? Mi interesso della relazione con Dio oppure è del tutto trascurata ed ignorata? Ho cura delle persone che fanno parte della mia esistenza: famiglia, figli, partner, genitori, persone a me affidate e quelle con le quali e per le quali lavoro o che incrocio quotidianamente?
Essere davvero dei grandi è non vivere solo per noi stessi, è non prenderci cura solo del nostro io per accorgerci di Dio e del prossimo ed è ciò che contraddistingue una persona matura e adulta da una che non lo è, una felice da una che non lo è. La tristezza sgorga spesso dal non sapermi curare del rapporto con Dio illudendomi di non averne bisogno, pensando che ma la cavo da solo e dal non curarmi degli altri perché ripiegato su me stesso, incapace di guardare aldilà del mio ombelico.
Sovente quando viviamo un periodo difficile ciò che ci fa più soffrire è la paura di doverlo affrontare da soli invece Dio è al nostro fianco sempre e questo dovrebbe anche essere il nostro stile di vita, imparare a non lasciare sole le persone, interessarci a loro, saperci fare compagni di strada, molte volte non potremo risolvere il problema di quell’individuo ma una cosa possiamo sempre fare ed è stargli accanto, uscire dal nostro guscio e sintonizzarci su ciò che vive. L’attenzione agli altri è una palestra che libera dalla pigrizia, dall’indifferenza, dalla noia, dalla depressione e dall’egoismo.
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Se non ci alleniamo a prenderci cura delle persone e a permettere a Dio di prendersi cura di noi ci riduciamo a vivere come isole, l’anima diventa rachitica, anchilosata finchè il cuore diventa totalmente insensibile, freddo, non vede e non sente più. Oltre al testo e all’audio oggi aggiungo il contributo dell’arte. Jean-Marie Pirot (1926-2018) è meglio conosciuto come Arcabas.
Molte delle sue opere sono collocate nella chiesa di Saint-Hugues-de-Chartreuse, tra le quali quella che ho scelto: Il figlio perduto e ritrovato (1985). L’artista dipinge gli occhi del Padre in modo da renderceli entrambi visibili per sottolineare che il Signore non ci perde mai di vista; alle sue spalle si intravede l’uscio di casa a simboleggiare che aver cura di qualcuno significa uscire da ogni forma di chiusura e di egoismo per chinarci e farci vicini al nostro prossimo e in questo Dio è un campione.
Colpisce la figura del cane, anche lui mostra accoglienza e affetto verso quel figlio che torna a casa sgangherato quasi a suggerirci che se gli animali sono capaci di affetto perché non dovremmo riuscirci noi. Anche il figlio però ha fatto la sua parte, si è incamminato per ritornare al Padre, si è inginocchiato ma con le braccia alzate per lasciarsi abbracciare, anche noi dobbiamo aver cura di instaurare un bel rapporto con Dio fondato sulla fiducia e l’affetto.