don Marino Gobbin – Commento alle Letture di lunedì 6 Gennaio 2020

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PRIMA LETTURA

È la meditazione di un profeta sulla sorte di Gerusalemme. Egli assiste forse al sorgere del sole sulla città, spettacolo che si offre ancor oggi ai turisti. Mentre le valli che la circondano sono ancora immerse nell’oscurità della notte, le mura della città riflettono invece lo splendore del sole che sorge ed appaiono tutte luminose. Trasportando questo spettacolo in una visione escatologica, procedimento classico nei profeti di Sion (Ez 40-48; Sal 87), Isaia immagina che Gerusalemme diventi la luce del mondo; ma non è più dal sole, bensì da Iahvè stesso che le viene questo irradiare meraviglioso.
Le caratteristiche di questa nuova Gerusalemme sono soprattutto cultuali: la «gloria» è la manifestazione della «presenza» di Dio nel tempio suo (Ez 1,4-28; 43,1-59; Sal 26,8; 63,3). Questa «presenza» di Iahvè è una caratteristica del culto di Sion (Dt 12,5). Il «raduno» di tutte le tribù (2 Re 23; Dt 4,10-13; Sal 122,4) è imposto dalla legge alle feste principali del calendario giudaico, e i doni che le nazioni portano a Gerusalemme sono profumi destinati alla liturgia dei sacrifici d’incenso1 per i quali Iahvè non ha nascosto le sue preferenze (Mal 1,11). Ma se gli elementi del culto sono ristabiliti in Gerusalemme, attorno alla gloria di Iahvè ritornata in Sion, il raduno che si effettua (v. 4) non è più soltanto quello delle tribù, ma quello delle nazioni (v. 3). La nuova liturgia riguarda il mondo intero. La partecipazione delle nazioni a questa «assemblea» (Zc 14,15-20) è ancora concepita in dipendenza dalle tribù giudaiche, e le nazioni hanno soprattutto il compito di riportare i figli di Gerusalemme nelle mura della loro città. Tuttavia questo costituisce un primo passo verso l’universalismo cristiano. Ma per giungere a questo universalismo è stata necessaria per Israele l’esperienza della dispersione in mezzo alle nazioni.
La visione del profeta che descrive la salita delle nazioni verso Gerusalemme non vela completamente il particolarismo da cui questo testo è ancora ispirato. Come il Sal 71 promette un re a cui tutti gli altri re della terra pagheranno il tributo, così il profeta vede in Sion la città in cui l’universo si raduna per recarvi le sue ricchezze e offrirvi i suoi sacrifici. Però questo universalismo è troppo centripeto: l’universalismo della salvezza si profila e si realizza partendo da Sion (Dt 7,1-16; 23,4-9; Ne 10; Sir 36,1-17). I primi cristiani hanno effettivamente creduto che Gerusalemme sarebbe stata il centro dell’unità religiosa. Paolo stesso lo ha creduto. Quando procede alla colletta per Gerusalemme, egli pensa alla profezia che stiamo esaminando: le ricchezze confluiranno verso Sion (Rm 15,26-28; 1 Cor 16,4). Ma essi saranno presto portati a sbarazzarsi di un concetto troppo rigido di centralizzazione e a riconoscere che ogni Chiesa locale è, per l’Eucaristia, segno del raduno universale, poiché gli organismi centrali, non sono altro che un servizio a disposizione delle Chiese locali e della loro comunione.

SALMO

Il salmo, in alcuni suoi versetti, guida la nostra risposta a Dio. Tutti siamo invitati a glorificarlo per i benefici a noi concessi nel Cristo. Con le parole del ritornello affermiamo e ripetiamo la nostra fede nell’incarnazione del suo Verbo.

SECONDA LETTURA

Questo passo introduce la conclusione della parte dottrinale e prepara la preghiera finale (Ef 3,14-20). Paolo ritorna ancora alla contemplazione del «mistero» (v. 3) dell’introduzione dei pagani nella Chiesa e del «ministero» (v. 7) apostolico che gli è toccato per realizzare questa volontà di Dio (cf Ef 1,3-14; 1,18-23; 2,1-2.14-22).
Agli occhi di Dio il mistero della Chiesa è il suo rapporto con il mondo. L’essenza di questo mistero è la preparazione dell’ingresso degli uomini nel Regno di Dio; dentro la Chiesa poi il ministero apostolico è il servizio in cui degli uomini richiamano senza posa ai loro fratelli in Cristo la missione di dialogo con il mondo e di accoglimento delle mentalità e delle culture umane.
Paolo designa questa missione col nome di «mistero» perché l’intenzione di Dio di edificare una Chiesa con questa responsabilità non è apparsa di colpo: l’elezione d’Israele sembrava, al contrario, significare che la volontà di Dio era limitata alla promozione di un solo popolo. Non fu lo sforzo di qualche profeta universalista alla fine dell’Antico Testamento che poté recarvi grandi mutamenti, tanto era radicato il particolarismo dei loro uditori.
Nascosta così durante tutta la storia d’Israele, questa volontà di Dio si è manifestata infine nella persona di Gesù, nell’attenzione che egli da vivo rivolse anche ai pagani, e soprattutto nel potere di cui dispone dopo la sua risurrezione, con un corpo che nulla può più limitare, di incontrare tutti gli uomini e di unirli a sé nell’amore.

VANGELO

Da Mt 1,18 a Mt 2,23, l’evangelista raggruppa cinque episodi dell’infanzia di Gesù e stabilisce un parallelismo con cinque testi dell’Antico Testamento (procedimento del midrash). Il suo scopo è quello di ritrovare nell’infanzia di Gesù i segni ed i presentimenti di una vocazione che realizzi tutte le vocazioni antiche: nuovo Mosè, sfuggito come lui al massacro, come lui chiamato dall’Egitto, come lui illuminato miracolosamente al momento della nascita; nuovo Davide che realizzerà meravigliosamente la profezia dell’Emmanuele (Mt 1,20-24) e su cui brillerà la stella messianica di Nm 24,17; nuovo Salomone la cui sapienza attira i sapienti d’Oriente, così come attirò la regina di Saba (1 Re 10,1-13); nuovo Elia, infine, che praticherà il nazireato profetico (Mt 2,23).
a) Il racconto dell’adorazione dei Magi si presta ad un’altra considerazione. Matteo scrive per cristiani di Palestina, cioè per Giudei passati al cristianesimo. Essi hanno bisogno di rafforzare la loro nuova fede con la convinzione che rimangono fedeli al dinamismo delle antiche promesse. La prima preoccupazione dell’evangelista è quella di mostrare loro che la nascita di Cristo attira a sé i fasti della dinastia regale. Unendo 2 Sam 5,2 con Mic 5,1 (v. 6), Matteo dimostra che Cristo appartiene alla dinastia davidica e che contemporaneamente risolve il doloroso problema dell’unità del popolo fra Giuda ed Israele. Così Cristo compie simultaneamente una profezia sulla restaurazione di Giuda (Mic 5) e realizza una parola delle tribù del Nord (Israele) che invitano Davide a regnare su di esse. La fedeltà dei Giudei alle profezie li invita a riconoscere in Gesù quel Messia che attendono.
b) Come spiegare che i Giudei, in generale, non si fanno cristiani? Per rispondere a questa domanda che si pongono i cristiani, Matteo inserisce nel suo testo l’episodio di Erode. Si viene allora a costatare che i primi ad interessarsi della nascita del Messia e ad andare alla sua «ricerca» sono dei pagani. Invece, coloro che, per professione, dovrebbero essere al corrente di questa nascita, gli scribi ed i sacerdoti, sanno molto bene dove il Cristo deve nascere, la loro scienza è aggiornata, ma sono senza fede e non si disturbano per andare a vedere il Bambino. Erode fa conto di recarvisi, ma si sa con intenzione omicida.
L’essenziale del quadro di Matteo verte dunque su una contrapposizione fra il rifiuto dei Giudei e la fede dei pagani. Dinanzi allo spettacolo di questi pagani che adorano Gesù, Matteo si ricorda della profezia di Is 60,6 (i regali) e ne segnala la realizzazione. I pagani divenuti cristiani hanno così un nuovo motivo per rafforzare la loro fede: le stesse profezie giudaiche danno loro ragione annunciando come le cose sarebbero avvenute. Notiamo d’altronde che in tutto il suo Vangelo Matteo si preoccupa di spiegare questo rifiuto dei Giudei e questo accedere dei pagani alla fede cristiana. Dopo la risurrezione, egli mette nuovamente in scena i sacerdoti che si rifiutano di credere (Mt 28,11-15) e contrappone loro l’invio dagli apostoli alle nazioni (Mt 28,16-20).
La lezione essenziale di questo Vangelo sembra dunque chiara, anche se si appella ad un midrash più antico: i Giudei che conoscevano le profezie attraverso la loro conoscenza scritturistica, non hanno riconosciuto il Messia. Questa mancanza di fede toglie loro ogni diritto; invece le nazioni che non conoscevano nulla dei profeti entrano subito nella fede.
c) Narrando l’episodio dei Magi Matteo ha voluto fare un commento dell’episodio di Balaam. Da una parte e dall’altra ci sono dei magi pagani chiamati da un re straniero (Nm 22,2-4) per maledire il popolo (o il suo re); da una parte e dall’altra i magi adottano una posizione contraria e benedicono colui che erano incaricati di condannare; in tutte e due annunciano un astro di luce abbagliante (Nm 24,17; cf Mt 2,2); in tutte e due, infine, i magi se ne ritornano da dove erano venuti senza essere molestati (Nm 24,25; Mt 2,12).
Con questo midrash della storia di Balaam, Matteo rivela chiaramente la sua intenzione: associare fin dall’inizio della vita di Gesù i pagani all’estensione universale del suo regno.
Midrash popolare, il racconto di Mt 2,1-12 inculca l’idea dell’universalismo del nuovo regno. Il fatto che non tutti i suoi elementi siano storici non pregiudica l’intento. Forse la critica proverà un giorno che i Magi non sono mai stati a Betlemme e che la stella non è mai esistita? Noi non ignoriamo che il midrash è un genere letterario che permette l’uso di elementi leggendari se servono alla buona causa. Teniamoci dunque all’essenziale: il bambino adorato dai Magi instaura un regno universale.

PER ANNUNCIARE LA PAROLA (piste di omelia)

La Chiesa ha fallito nella sua missione universalista? È fatta perché tutti i popoli si sentano in essa come a casa loro. Ora, dopo ventun secoli di storia, la troviamo legata al mondo culturale dell’uomo bianco. Ai popoli dell’Asia e dell’Africa, il cristianesimo appare come la religione del continente europeo (e delle estensioni europee nelle Americhe). Le minoranze cristiane asiatiche ed africane trasmettono la loro fede attraverso categorie mentali ed un apparato istituzionale che portano lo stampo dell’Occidente.
A coloro che, di fronte ad un simile risultato, contestano alla Chiesa la sua aspirazione universalista, il cristiano deve essere in grado di rispondere con piena lucidità. Deve poter spiegare perché il progetto di cattolicità che anima la Chiesa non abbia dato apparentemente frutti maggiori.
È necessario ribadire che l’apertura universalista è uno dei caratteri essenziali del cristianesimo: tutte le nazioni sono chiamate ad entrare nel Regno inaugurato in Gesù Cristo, e il dovere missionario è assolutamente primo nella Chiesa.

Cristo, luce delle nazioni

È nella prospettiva del disegno universalista di Dio che Gesù inaugura il Regno tanto atteso. Un Regno aperto a tutti. Gli interdetti cultuali sono aboliti: ciechi, zoppi, lebbrosi, sono invitati al banchetto. Gesù frequenta i pubblicani ed i peccatori; è venuto per essi. Le nazioni stesse sono tutte convocate.
Gesù concentra il suo ministero sul popolo eletto, poiché di questo popolo egli vorrebbe fare lo strumento missionario del Regno. Mentre il popolo eletto è continuamente tentato a considerare l’elezione pienamente gratuita di Dio come un privilegio, Gesù tenta di fargli capire che l’elezione divina è innanzitutto fonte di responsabilità.
Tuttavia, molto presto, non è più possibile avere dubbi: il popolo eletto non accetta di entrare nelle vedute di Dio. Questo rifiuto accentua in qualche modo la mira universalista di Gesù. Preparato per gli eredi, il Regno sarà loro tolto e dato alle nazioni. Gli episodi evangelici che riferiscono i contatti di Gesù coi pagani sottolineano a che punto il Messia è colpito dalla loro fede e dalla loro accoglienza senza riserve della Buona Novella.
Mentre si afferma questa apertura universalista, si rivela nello stesso tempo con chiarezza la natura propria del Regno. Aperto a tutti i popoli, il Regno non è di questo mondo; è disceso fra gli uomini, ma sfugge totalmente al loro potere. L’accesso alla Famiglia del Padre deriva dalla gratuità totale di Dio. In una simile prospettiva, tutti i privilegi sono aboliti.
Di questo Regno universale, Gesù è il perno. È nella sua Persona che il Regno è costituito nella sua realtà trascendente ed immanente insieme. Respinto dal suo popolo, Gesù fa il dono della sua vita a vantaggio di tutti. Nella luce del mistero pasquale, il particolarismo giudaico è definitivamente superato.

La Chiesa dei Quattro-Venti

La prima generazione cristiana prende a poco a poco consapevolezza di ciò che significa concretamente l’abolizione dei privilegi giudaici. Ci vorrà molto tempo perché la Gerusalemme terrestre ceda veramente il posto a quella celeste e perché i cristiani nati nel paganesimo ottengano pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa della Pentecoste. È progressivamente che si scorgono tutte le conseguenze dell’universalismo del cristianesimo. Eppure era essenziale che avvenisse questa presa di coscienza. S. Paolo vi ha contribuito molto: secondo lui, la croce di Cristo è realmente la definitiva eliminazione dei muri di separazione fra i Giudei e le nazioni.
Sul piano dottrinale, avviene un approfondimento parallelo. In S. Paolo, bisogna aspettare le epistole della prigionia perché la Chiesa appaia pienamente svincolata dai suoi legami troppo terrestri con la Chiesa-madre di Gerusalemme e perché si presenti come quella che è salita con Cristo presso il Padre.
L’universalismo della Chiesa comporta una duplice esigenza. La Chiesa non si addiziona coi popoli della terra: individui, popoli e culture sono tutti chiamati ad occupare il loro posto nella Chiesa. Ma la Chiesa è una realtà storica: per realizzare la sua missione, essa mutua costantemente dalle «ricchezze» delle nazioni, e prende il volto concreto dei popoli in cui s’incarna. Per tutti i mondi culturali, essa fa ciò che Gesù ha fatto per Israele: pone le sue radici nel dinamismo spirituale di questi mondi, ma lo fa in modo tale che la sua incarnazione sia essa stessa rivelatrice della sua trascendenza propria. Dappertutto dove la Chiesa si localizza, ha la missione di apparire in quel luogo come la Chiesa aperta a tutti.
Non bisogna illudersi. Un processo di degradazione minaccia la Chiesa in ogni sua conquista. I cristiani rischiano sempre di confondere la Chiesa universale col volto storico che ha assunto presso di essi. Ogni volta, l’universalismo vero si trova in pericolo. Invece, l’estensione spaziale della Chiesa e l’accoglienza nell’unità della Chiesa di una larghissima diversità costituiscono la garanzia di un universalismo autentico.

La convocazione universale alla salvezza

L’universalismo della Chiesa sbocca necessariamente nella missione. Alle origini della Chiesa, la presa di coscienza della necessità e dell’urgenza della missione ha seguito passo per passo la percezione delle condizioni del vero universalismo. All’inizio, sono gli avvenimenti che provocano l’«uscita» da Gerusalemme; ma, quando sarà fondata la Chiesa di Antiochia, è la stessa comunità radunata a mandare in missione Barnaba e Paolo. A partire da quel momento, la missione sorge come un’esigenza interna.
La Chiesa è essenzialmente missionaria perché la relazione col mondo non cristiano è costitutiva del suo essere. Essa ha l’incarico di stabilirsi dovunque sia necessario affinché la convocazione divina alla salvezza in Gesù Cristo raggiunga effettivamente tutti gli uomini, qualunque sia la loro identità spirituale o socio-culturale. Per questo fine, essa si dà continuamente un volto nuovo, inventa continuamente nuovi modi di aggiornamento, attingendo nel tesoro della sua tradizione viva e stando in ascolto della grazia che è in atto nel mondo non cristiano e che deve logicamente fruttificare nella Chiesa.
Non tutti i membri del Corpo di Cristo hanno lo stesso ruolo da compiere nell’opera missionaria che riguarda tutti. Certuni sono chiamati a compiere un ruolo che si può considerare come missionario in senso stretto, perché la situazione che occupano, oppure dove sono stati mandati, li invita a portare nel loro cuore e nella loro carne una vera appartenenza alla Chiesa. Attraverso questa via difficile della duplice appartenenza, il mistero di Cristo si trasmette attivamente al popolo da evangelizzare. Anche se non tutti sono missionari in senso stretto, la funzione missionaria della Chiesa deve essere, per tutti, il principio regolatore dei loro comportamenti quotidiani. Nella Chiesa, la funzione missionaria non è una funzione accanto ad altre: è la chiave di volta di tutto l’organismo.
La storia della Chiesa ci manifesta ampiamente che, ogni volta che il mondo noto dei cristiani si è allargato od un ordine nuovo si è sostituito ad uno antico, sono sorti degli uomini per prendere a loro carico il dovere missionario che si imponeva. Però, affinché potessero riuscire nella loro impresa, sarebbe stato necessario, ogni volta, che il corpo dei cristiani entrasse nel loro solco…
Un compito missionario nuovo si presenta ad ogni generazione cristiana. Quello che si offre oggi è difficile, perché i mondi culturali si trovano impegnati in un raffronto inevitabile. Ed è proprio in questo che bisogna rivelare che Gesù Cristo ha demolito con la sua croce (che è pure quella della Chiesa) tutti i muri di separazione fra gli uomini. In questa prospettiva, i missionari di domani non dovranno essere innanzitutto i servi dell’intercomunione a servizio di un’unica missione universale?

L’Eucaristia, mistero di cattolicità

L’ambizione di ogni celebrazione dell’Eucaristia è un’ambizione di universalismo. L’equazione fra l’Eucaristia e la Chiesa appartiene ad una tradizione costante. Celebrare in qualche parte l’Eucaristia significa far nascere la Chiesa, consolidare il mistero della convocazione universale alla salvezza in Gesù Cristo. Tutti coloro che si trovano nel campo di questa convocazione sono invitati al banchetto, qualunque sia la loro diversità, qualunque cosa li possa separare. In breve, è lo stesso progetto di cattolicità della Chiesa che prende consistenza nella celebrazione eucaristica.
È importante che questo dinamismo «cattolico» dell’Eucaristia si verifichi nello stile delle celebrazioni, e più largamente, in tutto l’organismo delle istituzioni ecclesiali. Troppi raduni eucaristici portano esclusivamente il segno sociologico di coloro che vi partecipano. Aperti in teoria a tutti, non sono poi così di fatto: gli «abituati» vi si sentono a casa loro, ma gli altri hanno l’impressione di essere degli estranei. La storia spiega perché le nostre celebrazioni eucaristiche sono in generale così poco l’espressione della cattolicità della Chiesa. Ma, oggi, si tratta dell’avvenire della missione: occorre che il segno distintivo dell’Eucaristia, cioè la sua cattolicità, appaia in tutta la sua ampiezza. Quando i cristiani si radunano per partecipare insieme alla Parola ed al Pane, bisogna che sappiano che la comunione offerta loro include l’insieme dell’umanità.

Fonte

Tratto da “Omelie per un anno 1 e 2 – Anno C” – a cura di M. Gobbin – LDC

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