Per avere autorità bisogna vivere ciò che si predica
Viviamo in un mondo fatto di parole; un turbinio, un bombardamento di parole, che ci giungono da tutte le parti, soprattutto dai moderni media, Tv e internet in prima fila. Tutti vogliono parlare, nessuno sa più ascoltare; in questo modo la parola ha perso di valore: è un soffio d’aria che muore nel momento stesso in cui viene pronunciata.
Nella cultura semitica, quella degli uomini della bibbia e dello stesso Gesù, non era così: la parola era un atto solenne ed efficace, tanto più operante tanto più grande e sincero era colui che la pronunciava. In questo senso il libro del Deuteronomio è emblematico, visto che è stato definito come il libro della legge divina predicata, raccogliendo tre grandi e solenni omelie attribuite a Mosè; e per questo, sempre nella cultura semitica, hanno un posto privilegiato i profeti, coloro che, come leggiamo nella prima lettura di questa quarta domenica del tempo ordinario, tratta appunto dal Deuteronomio, parlano con le parole di Dio.
Nel brano evangelico di questa domenica incontriamo Gesù proprio nella sue vesti di grande profeta, il più grande di tutti. Anzi, nel prologo di Giovanni addirittura Gesù è la parola stessa di Dio che si è incarnata («e il verbo si è fatto carne»). Egli, ripete due volte Marco, insegnava come uno che ha autorità, per questo la sua predicazione è efficace, capace anche di fare miracoli e scacciare demoni. Ma che significa «insegnare con autorità»?
A differenza degli scribi e dei farisei, che nel vangelo vengono sempre definiti ipocriti, Gesù viveva in prima persona quello che predicava e ciò che chiedeva agli altri lo applicava innanzitutto a se stesso. Così, quando chiede di amare il prossimo, lui per primo lo ama in massimo grado fino a dare la vita per tutti gli esseri umani e quando predica il perdono, lo applica nel momento supremo della croce: «Perdona loro, perché non sanno quello che fanno…». Questo significa parlare con autorità: vivere in prima persona ciò che si chiede agli altri. Credere in ciò che si dice e ciò che si dice fare.
Ne facciamo esperienza tutti: quando crediamo in qualcosa e desideriamo trasmetterla, non occorrono tante parole, bastano i gesti, l’espressione del viso e, soprattutto, l’esempio di vita.
Tutti, in questo senso, possiamo essere profeti, parlare con autorità: il prete che vive ciò che predica; il catechista che crede per primo in ciò che insegna; il genitore che educa soprattutto con l’esempio; il politico che s’impegna innanzitutto per il bene comune…
È facile fare i profeti dietro una tastiera di un computer o di un cellulare, dove nessuno ci conosce, non si ascolta il tono della voce e non si vedono i gesti del corpo e la luce degli occhi. Per questo, oggi più che mai, occorre recuperare la profezia della nostra fede, dare un senso alle nostre parole e parlare soprattutto con l’esempio, non scoraggiandoci se siamo pochi e in minoranza: di profeti in Israele ne nasceva uno ogni tanto e gli apostoli di Gesù erano solo dodici, rozzi e ignoranti, eppure hanno evangelizzato il mondo credendo in ciò che dicevano e testimoniando in prima persona la fede nel Cristo crocifisso e risorto.
A cura di Don Mariano Landini per Toscana Oggi