Il fornaio e quelle tredici pagnotte
Il fornaio di Gerusalemme, “quel” fornaio di Gerusalemme, erano anni che confondeva il giorno con la notte: “E’ una delle tante stranezze della vita!” diceva a chi, senza malizia alcuna, gli faceva notare che viveva al contrario: faceva colazione a notte fonda, il pranzo a metà mattina, riposava quando tutti pranzavano, cenava per merenda e, d’estate, dava la buonanotte quando la gente era ancora in spiaggia a spalmarsi la crema.
“Non ti nascondo che fare il fornaio è un lavoro usurante. Le vacanze non durano più di una settimana. Lo specchio mi dice che le rughe dipendono dal sonno arretrato, dalla stanchezza”. Eppure, c’è sempre un eppure: “Eppure questo è il mio lavoro, che ci tramandiamo a casa nostra da generazioni: non riesco a vedermi in nessun altro”.
D’altronde, anche solo a pensarci, dove avrebbe trovato la possibilità di ammirare un ciclo intero di vita, dall’impasto alla doratura della crosta, come di fronte al suo pane? Con tutta la magia che ruota attorno al forno: i dolci, le meringhe, i biscotti. Soprattutto non ci riusciva proprio a trovare un altro lavoro che gli permettesse di imparare che solo sbagliando e riprovando si riesce nell’intento.
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Quale vantaggio a cambiare il suono della notte col baccano di una stazione, il chiasso d’una sala d’aspetto affollata di business-man impazziti: “Vuoi mettere, tu, lavorare di notte, quando il mondo attorno tace?” Il suo lavoro lo rendeva orgoglioso, era geloso di quel lavoro.
Impastando il pane, poi, gli capitava spesso d’immaginare su quali bocche sarebbe andato a poggiarsi, quali palati si stavano preparando a gustarlo, quali denti avrebbero smascherato la sua ghiotta fragranza.
Quel mattino, però, non se l’aspettava. Era un giorno come altri, era stata una notte come altre, quello appena entrato era un cliente insospettabile: “Tredici pezzi di pane, per favore!” chiese dal bancone. Li prese, li imbustò, li diede: ricevette delle monete come baratto. Le volle semplici le pagnotte: non con quinoa, azimo, uvetta, curcuma, canapa, cereali.
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Prese pane normalissimo, di quello per fare la scarpetta poi con il sugo. Quando salutò quel cliente, il fornaio si lasciò andare a commentare i fatti che stavano accadendo a Gerusalemme: un Uomo – “buono come il pane” si diceva – era in procinto di essere ucciso. L’invidia dei potenti lievitava: “Va così – disse -: le tartine cadono sempre dal lato imburrato”.
Come dire che a voler trovare logica nell’illogico è la cosa meno logica. Lo sapeva bene lui ch’era venuto a sapere, appena qualche giorno prima, dell’ennesima chiusura di un forno in città: “Ormai chi vende pane è costretto a chiudere e chi vende cover per cellulari apre un negozio al giorno”. Fatto sta che, manco lui, poteva immaginarsi dove si sarebbero posati quei tredici pani: «Nella notte in cui venne tradito, Gesù prese il pane, rese grazie con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede a suoi discepoli e disse: “Prendete, mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”» (dalla liturgia)
Non capì di essere sulla cresta dell’onda: senza saperlo, aveva preparato l’attrezzo col quale Dio avrebbe rifatto la storia. C’era da aspettarselo, d’altronde: c’erano così tante persone affamate, che Dio non poteva apparire loro che in forma di pane.
Quando, il giorno dopo, vide sui giornali una foto che nei secoli diventerà dipinto – tredici uomini maschi seduti attorno ad un tavolo, con le sue pagnotte nelle mani del più Bello – gli prese un colpo al cuore. Ripensò alle notti insonni, al riposo sacrificato, al rumore dei passi notturni, al sapore del mattino.
(Ri)guardò il suo pane lievitare, prendere forma e fragranza: “Ne è valsa la pena!” E pensò che tra tutti i clienti VIP pensabili, mai avrebbe immaginato di avere il Dio che, pure lui, aspettava. Al quale ogni notte, prima di accendere il forno, si affidava: «(Il pane) è frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Lo presentiamo a te perchè diventi per noi cibo di vita eterna» (dalla liturgia).
Non immaginava, un giorno, di poter essere di aiuto al Cristo per restare nel cuore dell’uomo anche quando l’uomo l’avrebbe tradito. “Sono le stranezze dell’amore: quando meno te l’aspetti, arriva e ti porta via con sè”. Prende il frutto del tuo lavoro e lo innalza nell’alto dei cieli. E pensò a quante notti si era chiesto se tutta quella sua fatica avesse avuto, poi, almeno un senso.
Per gentile concessione di don Marco Pozza – Fonte