“Io speriamo che me la cavo”
E’ sull’orlo del tracollo, sta per perdere tutto. Sta perdendo il lavoro, ma dal lavoro dipende la dignità, dunque sta perdendo persino la sua decenza. E già la gente inizia a puntargli l’indice contro: “Guarda chi si credeva più furbo degli altri com’è ridotto!” A ridursi così, comunque, ci ha pensato lui stesso: «Fu accusato di fronte a lui (il padrone, ndr) di sperperare i suoi averi».
Amministrare i soldi di altra gente, per conto di altri, è un mestiere per pochi: il rischio di andare a farsi gli affari propri è sempre dietro l’angolo, ad un passo dal possibile. Tant’è che, il giorno in cui arriva la tirata d’orecchi, le scorte di scuse sono tutte esaurite. Non resta altro che andar a zappare: ma «non ne ho forza». Allora vai a mendicare: no, «mi vergogno».
Continuare a piangere sul latte versato? “Maledetta quella volta che ho iniziato a farmi prendere la mano: non son più riuscito a tirarla via” Nemmeno questo. L’amministratore, perduto tutto, tenta il tutto per tutto perché, a sentirlo ragionare, il rimpianto è un enorme spreco di energia: non è possibile costruirci nulla sopra, serve soltanto a sguazzarci dentro. Scusa, ma il chiedere perdono pare troppo? Probabilmente sì: non c’è nessun cenno di pentimento in lui, d’andare al rapporto dal capo men che meno: è come se, tutto d’un tratto, si fossero cancellati reciprocamente. Nessuno è più nulla per l’altro: “Se vuole può parlare con il mio avvocato. Questo è il suo numero. Ci vedremo in tribunale”.
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Prima, però, c’è un lavoro da cercarsi, una dignità da ricostruirsi. Anche s’è disonesto, gli pare proprio un grande spreco, nelle prossime mattine, regalare al soffitto gli sguardi: la vita è ciò che si spreca tra il vorrei e l’avrei voluto. Ecco, al netto della disonestà, la sua strategia: «Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone». Prima d’impiccarsi, perso il suo padrone, tenta di allearsi coi debitori del suo padrone: anche loro versano in una situazione di stallo. «Quanto devi al mio padrone? “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Siediti subito e scrivi cinquanta». E così facendo, fa felici un po’ tutti (eccetto il padrone): i debitori che, in diretta, si vedono dimezzare il debito. E lui stesso che, sotto la tempesta, si è inventato uno scudo fiscale grazie al quale assicurarsi un posto al sole per l’indomani.
Del pentimento nessuna traccia, anzi: sperpera più denaro adesso di quanto non ne avesse sperperato fin allora: i conti del padrone, dopo questi saldi improvvisati, sconfineranno ancora di più! La situazione peggiorerà ma, almeno, lui potrà dire di non essersi arreso alla situazione: “Lo spreco di avere cinque sensi – si sarà detto tra sé – e manco uno da dare alla giornata”. Detto fatto, cotto e mangiato.
L’indomani, al risveglio, oltre al nuovo lavoro, si trova la menzione d’onore, dalla parte offesa: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto: aveva agito con scaltrezza». Non è pentito, non ha chiesto scusa, nemmeno si è presentato dal datore ad invocare misericordia o pietà: l’ha offerta lui la misericordia, anche se tutti sono capaci di farsi belli alle spalle degli altri. Cristoddìo, però, lo sceglie come protagonista indiscusso di una sua parabola: “Ci mancava che il Signore andasse in brodo di giuggiole per un manigoldo!” dirà la gente frettolosa. Non è per questo, comunque, che Iddio lo loda, ma per avere avuto i riflessi pronti, nel bel mezzo di un’emergenza, per tentare di salvarsi.
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“Perché, dunque, non usare la medesima scaltrezza con quell’altra ricchezza, quella della vita eterna?” tenta di fare ragionare l’uditorio Cristo. Quaggiù, a conti fatti, l’arte di cavarsela da soli ci è data in dote sin dalla nascita. Per la vita eterna, invece, sarebbe ancora più semplice annullare il debito per intero: basterebbe portarglielo a Nostro signore, convinti che, da soli, siamo perduti nell’avventura della salvezza. In confronto a quell’amministratore, insomma, siamo poco scaltri.
Il che, a conti fatti, non basta comunque: scaltri e fedeli, occorrerà essere, per andare a bersaglio con Cristo. Rimane il fatto che siamo proprio strani quaggiù: ci infastidiamo per cose banali e dello spreco della nostra salvezza sembra che ce ne accorgiamo a stento.
Commento a cura di don Marco Pozza su Facebook
(Qui tutti i precedenti commenti al Vangelo di don Marco)
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