don Marco Pozza – Commento al Vangelo di domenica 13 Novembre 2022

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Alla fine, forse, a catturare la fiducia dei suoi discepoli, fino quasi a turbarli, sarà stata l’onestà del su parlare: «Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io” (…) Badate di non lasciarvi ingannare». Sorprende il loro turbamento: stupisce come la maggioranza delle persone sia turbata dall’onestà, invece che dall’inganno. Cristoddìo, invece, allo scadere del tempo quaggiù, resta chino sul cuore degli amici suoi perchè i fatti che si stanno profilando all’orizzonte non li colgano impreparati. Perché l’inganno è sempre in agguato: «Non andate dietro a loro».

L’avvisaglia gli nasce spontanea dopo essersi accorto di come gli amici cadevano dentro il più piccolo dei tranelli: ogni volta che appariva loro una scorciatoia, loro la imboccavano come fossero alberi senza corteccia. Erano per loro una sorta di innamoramento questi inganni: si accorgevano che c’era l’amo e anche la lenza – con tutto l’apparecchio pronto per catturarli – ma sembrava impossibile per loro non inghiottire anche la lenza. Erano quattro poveri-cristi gli amici del Cristo. Certi abbindolamenti, poi, eran orchestrati così bene, eran così sfacciatamente quotidiani, nascosti tra sorrisi e strette di mano, che parevano così naturali da non trovare nemmeno l’esigenza di reagire. Fu per questo che il loro Maestro, prima che le cose accadessero, li mise sull’attenti: «Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni» (C. Collodi). Uomo avvisato, mezzo salvato.

Putacaso che, ascoltandoli, crollasse tutto addosso – «metteranno le mani su di voi, vi perseguiteranno, consegnandovi alle prigioni» – Cristo si premura che non abbiano a terrorizzarsi oltremodo. Perché è necessario che avvengano queste cose, in modo da avere l’occasione di «dare testimonianza». Non vuole nascondere a quelli che gli han dato fiducia finora la miseria che c’è nel mondo: gliela anticipa.

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Ma il suo impegno è quello di assicurare loro che, esattamente dentro questa miseria, sta nascosta una percentuale di bellezza d’incalcolabile fattura, per la quale varrà la pena affrontare tutte le avversità che sono date in arrivo: “Non c’è nulla che sia più educativo delle avversità, amici miei!” sembra dire Cristoddìo a questa ciurma di amici sopraffatti dagli annunci dei profeti di sventura. Falliranno, invece, coloro che, di fronte alle calamità della vita, vi leggeranno solamente limitazioni al loro diritto di essere felici. Sembrano quasi necessarie, per Cristo, le calamità: non tanto per vedere un uomo buono lottare contro di esse, ma per accreditarsi la bella possibilità di scorgere un altro uomo buono venire a soccorrerlo. Com’è? Non tutto il male viene per nuocere.

Putacaso, poi, che vedendo tutto andare in frantumi, gli amici pensino di essere stati abbindolati, visto che certe volte pare questa la situazione quando arriva l’alta marea. Tranquilli, sembra garantire il Cristo: «Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». D’altronde l’aveva anticipato in tempi non sospetti che non sarebbe valso a nulla salvare il mondo intero se poi si fosse perduta l’anima. Eccolo, giusto all’imbrunire dei tempi, l’incoraggiamento: «Se in mezzo alle avversità il cuore persevera con serenità, gioia e pace, questo è l’amore» (T. d’Avila)

Perchè, a dare retta a Cristo, pare certo che non ci potranno essere tempi così tempestosi da riuscire a spegnere del tutto la luce di una candela. Capiterà il contrario: che certi giorni, come delle candele, gli eventi ci capovolgano, costringendoci al lastrico, in ginocchio. Per quell’occasione, Cristo chiede di imitare la candela: di continuare a protendersi verso l’alto, anche se capovolti, con la testa in giù. Non è affatto comodo un Dio che chieda all’uomo la perseveranza, quel duro lavoro che ti tocca fare dopo che sei tornato stanco dal lavoro che hai fatto. Resta quel felice sospetto: che i tempi duri non durano mai, le persone toste e innamorate sì. Quelle che vincono alla ventesima volta, dopo aver fallito diciannove volte.

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Commento a cura di don Marco Pozza.
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