Dio ci chiede di portare frutto dentro la vita
Un Dio agricoltore è il nostro, un Dio contadino dalle mani grosse e callose e dal volto segnato dal sole e dal freddo. Che non solo odora di pecore, le sue, quelle che strappa ai morsi dei lupi, ma che infaticabile lavora nei campi, i suoi, perché esplodano di vita. Le viti non sono piante alte e me lo immagino, questo Dio, inginocchiato e sudato a prendersi cura di me.
E se il Padre è il vignaiolo, il Figlio è lui stesso vite, pianta dalle cui radici germogliamo tutti e tutte. Aria aperta, sole, vento: che bello pensare che la nostra vita è questa. Lo diceva anche papa Giovanni: “Non siamo sulla terra a custodire un museo, ma a coltivare un giardino fiorente, destinato ad un avvenire glorioso.”
Cioè festoso, danzante. Ma quel che nel brano di oggi colpisce il mio cuore è quel “rimanete in me”: mi fa tornare in mente il “resta con noi, perché si fa sera“ dei discepoli di Emmaus, quel “non te ne andare, stai ancora con me” che si dicono gli amanti.
Come se anche Dio provasse nostalgia, nostalgia di me. Come se anche lui sentisse il dolore della separazione, lo strappo dello stare lontani. “Rimanete in me e io in voi, perché tra me e voi scorre la stessa linfa, siamo innestati l’uno nell’altro.”
È un Dio che scorre nelle mie vene, non distante, non da cercare fuori o altrove, ma tanto intimo e vicino che posso succhiare da lui la vita. E, se mi allontano troppo, rischio che quella linfa non arrivi fino alle mie ultime cellule.
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