Dalla vita esteriore verso la vita interiore…
Qual è il problema? Non ci rendiamo conto che la vita è fatta almeno di due versi. Un verso esteriore ed un verso interiore. Tutti noi, senza rendercene conto, viviamo immersi nella vita esteriore. Potremmo pensare che la vita esteriore coincida con l’apparenza. No! La vita esteriore è pensare che la nostra felicità dipenda da quello che ci accade intorno. Tutti noi pensiamo questo. Riponiamo tantissimo la fiducia negli eventi esterni. Non è una cosa sbagliata, ma è una falsa prospettiva. Gesù in questo caso è quasi quasi completamente inutile: noi da Dio ci aspettiamo sempre che metta mano agli eventi, ma non è questo il modo di agire di Dio. Dio non agisce quasi mai sugli eventi esteriori, perché vuole ricordarci che ciò che conta di più per la nostra vita non è quello che ci accade, ma la posizione che noi assumiamo davanti a quello che ci accade. Questo fa la differenza. Non è avere o non avere la salute, avere o non avere una famiglia che funziona, che certo è importante…ma attenti, la nostra felicità non può dipendere dagli eventi. Se leghiamo troppo la nostra vita agli eventi, ad un certo punto siamo in balìa della vita perché la vita segue una logica che sfugge al nostro controllo. Non si può vivere la vita tentando solo di evitare eventi sfortunati…
Il vero significato della nostra vita si gioca qui: che posizione io voglio assumere davanti a quello che mi accade? Questo trasforma tutto perché ciò che conta di più non è tanto la vita esteriore (l’insieme degli eventi che sono attorno a me), ma domandarci: che posizione voglio assumere io davanti alla vita?
Operare questo passaggio è la vita interiore! E qui non c’entra la fede perché la vita interiore ce l’ha ogni essere umano, che è tale perché ha una vita interiore, può decidere che posizione assumere davanti a quello che gli accade.
Nella nostra società non manca anzitutto la fede, ma la vita interiore, ossia la capacità di scendere nella parte più profonda di noi, dove si gioca davvero la nostra posizione esistenziale. Ognuno di noi deve tornare a sentire un bisogno profondo di vita interiore, di ripensare la propria vita non a partire dagli eventi, ma a partire dalla posizione che vuole assumere davanti a quegli eventi.
La vita interiore: non addomesticare il disagio, ma coraggio di ascoltarsi e interrogarsi nel profondo
Noi ci accorgiamo di qualcosa che abbiamo quando ci fa male. Noi ci accorgiamo della vita interiore quando incominciamo a provare qualche disagio: angoscia, tristezza, insoddisfazione … Ad un certo punto sentiamo che la vita ci fa male, siamo arrabbiati, siamo insoddisfatti e non sappiamo il motivo, non ne capiamo la radice e incominciamo a prendercela con qualcuno.
Oggi c’è una crisi del disagio, che tutti noi viviamo: facciamo finta che non ci sia. La cultura contemporanea vuole gestire il disagio, ad esempio addomesticandolo, addormentandolo. Tu sei triste, e io ti do qualcosa in modo che non avverti la tristezza. Invece il disagio non va soffocato o cancellato, nascosto, addormentato, ma va ascoltato! Non abbiamo più il coraggio di dirci: «Ma perché sono triste?». Abbiamo paura di farci questa domanda. Noi non vogliamo farci le domande. Uno non ha più una vita interiore perché ha paura di farsi le domande. Nessuno di noi deve avere paura di queste domande.
La bellezza di Cristo è che non ha mai tolto niente alle dinamiche umane di paura, di vergogna, di sofferenza, di dolore, ma ha aiutato le persone a farsi una domanda dentro tutto questo. Esempio: l’adultera … lascia che quella donna entri profondamente nella vergogna che prova…Noi non sappiamo più vergognarci ed evitiamo la vergogna per non fare i conti con la nostra miseria. Solo una persona che ha una vita interiore sa fare questo. Scendere giù, fino all’ultimo scalino della tua vergogna, però per prendere una decisione, per prendere sul serio quel Cristo che guardandoti ti dice: «Va’ e non peccare più!». Qui nasce la conversione. La mancanza di domande fa si che ciascuno di noi viva un disagio senza domandarsi da dove venga, tentando con tutto se stesso di addormentarlo.
Tutto questo può succedere anche nella fede cristiana. Cioè, siccome noi stiamo male, usiamo la vita spirituale non perché vogliamo ascoltare lo Spirito che sta parlando dentro di noi, ma per non stare male. E quando pregando non stai meglio, che fai? Non preghi più? Se tu usi la fede, se tu usi una devozione, se tu usi i sacramenti, se tu usi il rosario per addomesticare il disagio della tua vita e non per ascoltare ciò che il Signore ti sta dicendo in quel disagio, tutto quanto fai non è per avere una vita interiore. La presenza di Cristo dentro la nostra vita non ci toglie la fatica dell’esistenza, ma ci dà il coraggio di portare la fatica dell’esistenza. È proprio perché Gesù è presente che tu puoi permetterti di stare male. È proprio perché Lui è vivo che tu puoi essere triste fino in fondo, fino al fondo di capire perché sei triste e che cosa quella tristezza ti sta dicendo veramente.
È proprio perché il Signore ci ha dato la comunione dei Santi, ci ha dato una Madre, ci ha dato Maria che noi possiamo permetterci a volte di affacciarci in quell’abisso profondissimo, paurosissimo che è il nostro cuore. Non pensate che nel nostro cuore ci siano solo cose belle. A volte nel nostro cuore c’è un buio fitto ed è difficile riuscire a scendere dentro il nostro cuore! Siamo spaventati dallo scendere dentro il nostro cuore. Avere fede e usare bene la fede significa passare da una semplice vita interiore, intesa come la gestione del disagio, a uno scendere negli inferi di noi stessi, nella parte più profonda di noi. Una vita interiore che si trasformi in vita spirituale!
Una cosa posso dirvi con tutta certezza: in fondo, nella parte più profonda di noi non troverete il demonio; troverete il figlio di Dio, troverete lo Spirito. Certo, è ben seppellito sotto una coltre di buio, di difetti, di peccati, di sofferenze, di ferite, di pezzi della nostra storia, ma sotto, sotto, sotto non c’è il nulla, non c’è un mostro, ma c’è lo Spirito. È da questa certezza che noi possiamo incominciare a scavare dentro di noi, a riprendere dentro di noi questo cammino interiore.
Non lo so, non sono un esperto della spiritualità del Montfort, ma come l’ho digerita io nella mia vita, queste grandi figure compreso anche il Montfort, accompagnavano le persone verso una spiritualità che certamente non era la spiritualità della gestione del disagio, ma era una spiritualità che proprio perché riconduceva nella parte più profonda della vita, tirava fuori i santi dalle persone. Perché i santi non sono quelli che fanno i miracoli, intesi come giochi di prestigio; il miracolo più grosso è che tu trovi una persona che è veramente se stessa. Noi invece siamo tanti Pietro che fingono di essere Giacomo … Essere santo è scoprire chi sei veramente tu ed esserlo fino in fondo, non per scimmiottare di essere qualcun altro.
La vocazione alla santità è riappropriarsi di questa identità che è seppellita dentro ciascuno di noi, che lo Spirito sussurra dentro ciascuno di noi e che una sana spiritualità e vita interiore ti porta a tirar fuori il santo che c’è in te. I santi sono persone in carne ed ossa, con una umanità, una storia, con dei difetti, con un carattere, con un linguaggio, con una sensibilità, praticamente sono come noi.
Se invece noi usiamo la fede, la vita spirituale, gli strumenti della vita spirituale semplicemente per rimanere sulla soglia a gestire quello che viene fuori dalla cantina del nostro cuore, ecco noi abbiamo fallito, il nostro stare insieme è un fallimento, non aiuta.