La vera carta d’identità di una persona è ciò che più l’ha segnato. Noi siamo sempre riconoscibili per ciò che abbiamo patito, vissuto, affrontato. La vita non passa mai lasciandoci indenni. La vita passa e lascia il segno, sempre.
Molto spesso odiamo quei segni perché ci ricordano quello che ci ha fatto soffrire, ma una persona è veramente pacificata quando accoglie anche questi segni come parte integrante e preziosa della sua vita. Sarà questo il motivo per cui Gesù per farsi riconoscere dai suoi discepoli mostra loro le sue mani, i suoi piedi, il suo costato, le sue ferite: <<Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho”>>.
Dovremmo domandarci oggi come possiamo toccare e fare esperienza delle ferite di Cristo per poterlo anche riconoscere come Risorto e non come fantasma, cioè come una figura sbiadita frutto solo di un ricordo educativo d’infanzia senza nessuna incidenza del qui e ora della vita. Le nostre ferite, i nostri buchi, i segni della passione della nostra vita, ma anche i segni e le ferite dei fratelli e delle sorelle che abbiamo accanto, sono il luogo privilegiato in cui possiamo imparare la Pasqua.
In questo senso la Pasqua è possibile solo se fai pace con ciò che nella vita si ritiene essere solo un errore, un’ingiustizia, una cosa brutta. La gente non vuole entrare nelle case di riposo perché non vuole fare i conti con la vecchiaia. Non vuole entrare nei reparti di ospedale perché non vuole fare i conti con la malattia. Non vuole andare a trovare gente in carcere perché non vuole affrontare la propria miseria.
Tiene lontano e scarta i fratelli diversamente abili perché non ha fatto pace con la propria diversità. Se tornassimo a frequentare le piaghe di Cristo e a farci pace, ci accorgeremmo che è Pasqua.