“Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”.
Quale significato edificante può trovare nella riflessione di oggi il verbo odiare. L’odio non è una cosa bella, cosa ci fa nel Vangelo, e soprattutto cosa ci fa accostato alle cose a cui teniamo di più? Gesù non ci sta chiedendo di fare del male a chi amiamo o a noi stessi, ma ci sta chiedendo di ricordarci in maniera disincantata che per quanto noi possiamo amare qualcuno o noi stessi, nessuno ha il diritto di essere Dio al posto di Dio.
L’amore sincero che ad esempio abbiamo per qualcuno è la cosa che ci ricorda di più Dio, ma esso non è Dio. Trattarlo come se lo fosse significa paradossalmente rimanere delusi e fargli seriamente del male. In questo senso Gesù chiede di non dargli il posto fondativo perché altrimenti lo caricheremmo di una responsabilità insopportabile per lui e per l’amore stesso. Solo se Dio è alla base di tutto allora ognuno assume anche il suo giusto posto e il suo giusto peso. Poi però Gesù aggiunge:
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“Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”.
E così ci dice che un vero discepolo non è solo Colui che sa mettere al posto giusto ciò che conta, ma è anche colui che con realismo si prende la responsabilità di ciò che di reale c’è nella sua vita, e decide di farsene carico non in maniera eroica, ma in maniera umile, seguendolo.
Ci accorgiamo però di come siamo incapaci a vivere così. Non dobbiamo però perché solo il Signore può rendere possibile ciò che ci domanda. È per Grazia sua che possiamo amarlo veramente. È per Grazia sua che possiamo prenderci la responsabilità della nostra vita fino in fondo e andargli dietro.
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Avere fede significa ricordarsi che Dio rende sempre capaci coloro a cui domanda qualcosa. È la fede in lui e non nelle nostre forze che fa la differenza. Così ogni cosa trova il suo posto e il suo coraggio.
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Autore: don Luigi Maria Epicoco