AUTORE: don Luigi Maria Epicoco
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La storia di lazzaro è una storia che deve segnare in maniera indelebile il nostro immaginario cristiano. Lo scopo di simili storie è esattamente questo: comunicarci in maniera esperienziale ciò che conta. E la cosa che più conta in questa storia non è l’ingiustizia subita da Lazzaro ma bensì la tragedia di cui è vittima il ricco epulone.
Il racconto del Vangelo sembra volerci suggerire che si può arrivare a un punto di non ritorno nella propria vita in cui si perde persino la propria identità e il proprio nome (infatti non si riporta il nome di questo ricco) e tutto questo perché si confonde la propria identità con ciò che possediamo. L’uomo non è mai ciò che ha. Quando tu vivi pensando che la tua vita viene definita da ciò che hai allora basterà toglierti ciò che hai per accorgerti del niente che sei.
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La morte in fondo è la fine del verbo avere e l’inizio del totale verbo essere. Se tu hai passato tutta la tua vita dimenticando chi sei (il verbo essere) e vivendo solo per ciò che il mondo ti dava (il verbo avere), allora alla fine scoprirai che l’inferno è vivere nella cancellazione del tuo verbo essere, in un luogo di nulla cosmico. E il problema vero è che nell’inferno non smetti di essere ma semplicemente non puoi più recuperarlo come qualcosa che ti salva la vita, ma lo vivi come una condanna che non ti fa più varcare il confine tra ciò che può salvarti e ciò che può condannarti.
Questo confine è il confine dell’amore. Amare significa riappropriarci di ciò che siamo. Non poter più amare è l’inferno. Per questo ciò che in vita è una possibilità (il ricco avrebbe potuto amare Lazzaro), dopo la morte è un abisso:
“Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
Allora applichiamo un detto romano: “Facemo bene adesso che c’avemo tempo”.
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La cosa che colpisce nel racconto di Lazzaro e del ricco epulone del Vangelo di oggi, è esattamente il paradosso dell’illusione di chi pensa che il verbo avere siamo migliore del verbo essere. Il ricco epulone coincide talmente tanto con i suoi averi fino al punto da perdere persino la sua identità, ecco perché non si riporta neanche il suo nome.
Il povero invece che di averi non ne ha, ha invece qualcosa di più importante, un nome, un’identità, un verbo essere. Egli appunto è Lazzaro. Dio è Colui che ci promette di difendere fino all’estremo il nostro verbo essere. Egli non ci promette averi, ma ci promette di farci diventare noi stessi fino in fondo, al di là della vita che ci è capitata in sorte di vivere.
La vita eterna è vedere la realizzazione del nostro vero essere. L’inferno è il prolungamento di questa mancanza, il tormento di aver smarrito l’unica cosa che conta. Ma tutto dipende dalle nostre decisioni attuali. E per poter decidere di fare la cosa giusta non servono segni straordinari, ma basta far funzionare la mente e il cuore. Per questo Abramo rifiuta al ricco epulone la richiesta di mandare Lazzaro a convincere i suoi fratelli ancora vivi a convertirsi: “Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro.
E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi”. In questo modo Gesù vuole dire che la sua vita, la sua morte e la sua resurrezione non sono un imposizione ma una provocazione alla nostra libertà.
Davanti alla testimonianza di Cristo possiamo decidere di capire o ostinarci a vivere in maniera contraria. Tutto dipende da noi, non da chi dovrebbe convincerci.