don Lucio D’Abbraccio – Commento al Vangelo del 30 Gennaio 2022

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Don Lucio D’Abbraccio

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Nessun profeta è bene accetto nella sua patria

La testimonianza di Geremia – profeta vissuto nel 7° secolo avanti Cristo – sulla propria vocazione è un bellissimo incoraggiamento per ogni credente. Tante volte, anche da adulti nella vita e nella fede, ci interroghiamo su ciò a cui il Signore ci chiama nelle diverse situazioni. La risposta non è sempre facile. Ma Geremia ci incoraggia con due belle notizie. La prima: il Signore ci conosce da prima della nostra nascita, ci ha voluti per una missione precisa e ci ha dato ciò che ci serve per realizzarla.

La seconda: lui è sempre con noi e non ci lascia mai soli. Per questo possiamo avere la certa speranza che, se vogliamo sinceramente realizzare la sua volontà, egli ci aiuterà a comprenderla e a compierla. Geremia, che è stato costituito «profeta delle nazioni», che ha parlato in nome di Dio, educato il popolo nella fede, in cambio ha ricevuto ostilità e persecuzione. Però il Signore non lo ha abbandonato ed è stato e sarà sempre con lui: «non spaventarti di fronte a loro. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (I Lettura).

La seconda lettura ci propone una delle pagine più belle di san Paolo, conosciuta come inno alla carità. Fede, speranza e carità sono le tre virtù che caratterizzano il cristiano, ne formano come l’impalcatura spirituale e il sostegno morale. Ma, dice l’apostolo, la carità è più grande di tutte. Nella prima lettera ai Corinzi, infatti, Paolo mostra la “via” della perfezione che non consiste nel possedere qualità eccezionali: parlare lingue nuove, conoscere tutti i misteri, avere una fede prodigiosa o compiere gesti eroici. Consiste invece nella carità, cioè nell’ amore autentico, quello che Dio ci ha rivelato in Gesù Cristo.

La carità è il dono “più grande”, che dà valore a tutti gli altri: «è magnanima, benevola, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia», anzi, «si rallegra della verità» e del bene altrui. Chi ama veramente, dunque, “non cerca il proprio interesse”, “non tiene conto del male ricevuto”, “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Alla fine, quando ci incontreremo faccia a faccia con Dio, tutti gli altri doni verranno meno; l’unico che rimarrà in eterno sarà la carità, perché Dio è amore e noi saremo simili a lui, in comunione perfetta con lui.

Nel vangelo abbiamo ascoltato che Gesù è ancora a Nazaret, nella sinagoga, dove ha commentato la profezia di Isaia dicendo: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». A Nazaret, dunque, egli si proclama il Messia, unto con la forza dello Spirito, inviato per annunziare un lieto messaggio ai poveri e per proclamare l’anno di grazia di Dio. Questa breve affermazione desta stupore tra quelli che la ascoltano i quali, dopo i primi momenti di meraviglia e di ammirazione, nascono le diffidenze per le sue umili origini. Ricordando la giovinezza trascorsa da Gesù a Nazaret con la sua famiglia, essi si chiedono: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»

I nazaretani non comprendono che Gesù è venuto a superare le barriere, le divisioni, per recare la salvezza a tutti. La loro ammirazione per le sue parole non corrisponde in realtà a un vero ascolto di Gesù. Infatti, il Signore, accorgendosi di questo rifiuto della sua identità e conoscendo i pensieri dei loro cuori, dice: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Con questa affermazione Gesù svela i pensieri del loro cuore. Ecco, dunque, la non accoglienza del Signore nella sua città, tra i suoi, a casa sua. Poi pronuncia parole che potrebbero far trasparire delusione: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria». In realtà dal fallimento della sua predicazione egli non trae motivo di sconforto; al contrario, scorge in tale evento una conferma della sua identità: egli è veramente un profeta, il profeta per eccellenza e, come tale, può solo essere rifiutato dai suoi fratelli nella fede.

Per questo Gesù ricorda ai suoi concittadini e ai suoi familiari che nulla di nuovo sta accadendo nella sinagoga di Nazaret; anzi, si rinnova quello che è sempre accaduto a tutti i profeti i quali sono stati rifiutati, isolati, contestati, perseguitati, esiliati, talvolta messi a morte. Fa riferimento a Elia e a Eliseo. Queste sue parole fanno infuriare ancora di più i presenti i quali non credono che egli sia il Messia; anzi, a causa della loro incredulità e mancanza di fede – motivo per cui il Signore non ha compiuto nessun miracolo a Nazaret – «tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù». Di fronte a questa violenza collettiva che si scatena nei suoi confronti Gesù non reagisce, ma «passando in mezzo a loro, si mise in cammino», cioè andò via, avanti per la sua strada.

La liturgia della parola deve farci riflettere e soprattutto deve farci porre delle domande. Quando non c’è fede, Gesù non fa miracoli. Così nella sua patria, dove i compaesani guardano con scetticismo il figlio di Giuseppe e chiudono il cuore al mistero di Cristo. Noi abbiamo fede? Sappiamo riconoscere veramente in Gesù il Figlio di Dio morto e risorto per noi? Ci rendiamo conto che Gesù è ben più di un grande uomo o profeta e che non può essere usato a nostro piacere e consumo? Il vangelo ci chiede di accogliere Gesù nella sua umiltà e semplicità, senza cercare i grandi prodigi. La prima lettura ci invita ad avere fiducia nel Signore, sempre. Abbiamo fede in Dio? San Paolo, invece, ci esorta ad esercitare la carità, che è la più grande di tutte. Come cristiani, esercitiamo la carità?

Il Signore ci aiuti a comprendere il nostro compito di testimoni di Cristo e ad essere cristiani coerenti col nostro Credo.

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