Don Luciano Labanca – Commento al Vangelo del 9 Aprile 2020

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Un Giovedì santo diverso, insolito. Noi sacerdoti non potremo chinarci nelle liturgie solenni e partecipate delle nostre parrocchie a lavare i piedi ai nostri ragazzi, ai nostri anziani, agli ultimi. Non potremo vedere i volti impauriti ed emozionati dei nostri ministranti, nè i volti sorridenti e benevoli dei nostri fedeli che dai banchi guardano incuriositi la scena del Cenacolo, rappresentata ai piedi dell’altare. Eppure, mai come quest’anno, in cui celebriamo un Giovedì Santo più silenzioso, nella quiete delle nostre chiese e cappelle vuote, sentiamo forti e solenni le parole dell’Evangelista Giovanni: “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13, 1).

L’Amore di Cristo che supera ogni sentimento umano e che con la potenza del suo Spirito viene riversato nei nostri cuori, di noi, che siamo ancora nel mondo provato e messo in ginocchio da questa minaccia sanitaria, viene a ricordarci che più di quanto Egli ha fatto per noi, non poteva fare. L’Amore di Gesù per noi ha raggiunto il suo compimento, il suo fine (in greco télos), nel mistero del suo Passaggio (ebraico Pesach, da cui Pasqua) da questo mondo al Padre. Non è un caso che lo stesso Giovanni metta sulla bocca di Gesù crocifisso l’espressione “è compiuto” [tetélesthai] (Gv 19,30), che ha la stessa radice di télos. Mai come in questo anno dobbiamo sentirci destinatari di questa attenzione di Gesù. Il suo è un Amore pieno, completo, senza riserve. Oggi, risuonano al nostro cuore le parole del Cantico della vigna di Isaia: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?” (Is 5,4).

Cosa doveva farci Gesù più di quanto non abbia fatto per noi nel dono della sua vita? Il gesto di Gesù in quell’ultima sera, si è prestato troppo spesso ad un’interpretazione riduttiva: Gesù si è umiliato, facendo quello che nell’antichità toccava fare agli schiavi, cioè lavare i piedi, quindi anche noi dobbiamo metterci a servizio dei fratelli! Tutto questo è vero, ma non è tutto quello che Gesù voleva dirci! Nel gesto del deporre le sue vesti, chinarsi, lavare ed asciugare i piedi dei suoi, Gesù ci sta manifestando la sua missione, drammatizzando profeticamente quello che Paolo dirà nella Lettera ai Filippesi: “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2, 6-8).

Come ci ha ricordato papa Benedetto, seguendo la lezione dei Padri della Chiesa, la lavanda dei piedi non è solo exemplum, un esempio da seguire, ma è anche sacramentum, ossia segno di quanto realmente Cristo ci ha fatto e ci fa (cfr. J. Ratzinger, Gesù di Nazareth, Dall’ingresso a Gerusalemme alla risurrezione, 74-77). Egli, come in quell’ultima sera, specialmente mediante la forza della sua Parola e dei sacramenti – non a caso il Giovedì Santo si celebra l’istituzione dell’Eucaristia e del sacerdozio! – continua a realizzare in noi questa purificazione delle nostre vite, lavando i nostri piedi dalla polvere di questo mondo, con la forza restauratrice del suo Amore e della sua grazia. Se come Pietro, pensassimo di non averne bisogno, pagheremmo le stesse conseguenze, date dalle terribili parole: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8).

In questo Giovedì Santo, contemplando e adorando il mistero dell’Amore di Gesù realmente presente nell’Eucaristia, mentre da tante parti si levano obiezioni verso il senso della preghiera, della contemplazione, del “perdere tempo” con il Signore, veri tesori della Chiesa, insistendo più su un fare o un dare fini a sè stessi – spesso purtroppo inficiati di sterile protagonismo -, la Parola di Dio ci ricorda che senza la grazia di Cristo, ossia il suo Amore gratuito che viene a liberare i nostri cuori orgogliosi e ribelli della polvere di questo mondo, non potremo mai imparare la vera logica del servizio e del dono. Il nostro fare bene, senza queste premesse, sarà filantropia, beneficienza, volontariato, come quello di tante ONG e tanti uomini di buona volontà, ma non può dirsi carità cristiana. E se la Chiesa, trascinata da questo vortice, dimenticasse la radice teologica del suo farsi serva dell’umanità, che non deriva solo dal suo fare “come Cristo”, ma ancora di più “con Cristo” e “per Cristo”, perderebbe l’essenzialità della sua missione!


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