Nel brano evangelico letto domenica scorsa, abbiamo visto come Gesù si incammina decisamente verso la realizzazione della sua Pasqua senza tentennamenti. La prima azione da lui compiuta in questo percorso è quella di estendere la sua famiglia, allargandola ad altri 72 discepoli, in aggiunta ai Dodici, già chiamati in precedenza. Il numero non è casuale: secondo la simbologia dell’Antico Testamento, 70 o 72 era il numero indicante la totalità dei popoli del mondo. Gesù, in altre parole, chiama ad essere suoi discepoli tutti i popoli della Terra. Nella Chiesa non ci sono stranieri, essa è “kat’olon” (secondo il tutto), cattolica, ossia universale.
Il Vangelo è per ogni popolo, cultura, lingua e razza! Questa famiglia di Gesù, poi, non esiste per rimanere ferma e arroccata, ma per andare in tutto il mondo a preparare l’arrivo del Maestro. Essa è essenzialmente missionaria, esiste proprio per questo. Non può esserci, quindi, un discepolato che non sia per sua stessa natura missionario, ossia in cammino per diffondere il bene, l’amore e la luce di Cristo. Ciascuno di noi, oggi, dovrebbe sentirsi parte di questa famiglia dei discepoli di Gesù e chiedersi onestamente: sono io un discepolo missionario, nel contesto dove vivo e opero? La missione, poi, si fonda sempre sull’iniziativa di Gesù, il protagonista è Lui. Guai se pensassimo di autocandidarci o operare con le sole strategie umane. Parte integrante della stessa missione della Chiesa, secondo le parole di Gesù, è invocare coerentemente il dono dell’invio di questi discepoli missionari, coraggiosi e coerenti.
Essi non potranno mai contare su forze e strategie umane, perché sono come pecore deboli, in mezzo a lupi feroci, con un sostegno che viene dal cielo: non è una missione socio-politica, ma soprannaturale, da accogliere e vivere con fede. Essa non ha bisogno di mezzi umani o strutture per realizzarsi, ma solo della forza che viene da Dio. Quante volte nella nostra vita e nella nostra testimonianza cristiana siamo paralizzati dal senso di inferiorità, dalla mancanza di risorse o di strumenti umani. Tutto questo è sintomatico della nostra mancanza di fede.
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Se Dio chiama alla fede, ad essere parte della sua famiglia, non ci abbandona a noi stessi, ma provvede per noi tutto quello di cui abbiamo bisogno. Lo crediamo davvero? Infine, Gesù presenta realisticamente la possibilità che la missione sia umanamente fallimentare. C’è sempre la possibilità del rifiuto, dell’opposizione, del disinteresse. Dall’altra parte, però, come per i discepoli, non mancano mai anche i successi.
Di fronte a tutto questo Gesù raccomanda di non focalizzarsi né sui successi, né sugli insuccessi, ma sulla motivazione dell’essere discepoli missionari. Il motivo deve essere solo uno: Cristo, la nostra amicizia con Lui, cioè l’essere nella lista dei suoi amici, di coloro che sono attesi nel cielo, per condividere l’eternità beata con Lui. È questa l’unica ragione della vera gioia, che non tramonta.