Il più bello tra i figli dell’uomo
La quarta domenica di Pasqua, in cui la Chiesa celebra la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, prevede sempre la lettura di un passo del capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, in cui Gesù si rivela attraverso l’allegoria del pastore.
Non è un’immagine nuova nel panorama biblico, ben nota già infatti nel libro dei Salmi (cfr. Sal 23) e in Ezechiele (cfr. Ez 34, 24-31). Essa assume un senso più profondo dopo il passaggio pasquale di Gesù: è soltanto con il dono della sua vita e la sua Resurrezione che Egli mostra in pienezza l’amore totalizzante verso il suo popolo, redento dal suo sangue e radunato nell’unità della Chiesa.
Esaminando il testo propostoci, vediamo come Gesù riveli se stesso utilizzando un aggettivo qualificativo, accanto all’immagine del pastore: Io sono il pastore, quello bello (egó eimi o poimén o kalós). L’aggettivo “kalós” indica la bellezza, non da intendersi in senso estetico, ma totalizzante: il vero, il buono, il giusto, quindi il bello.
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Per questa ragione anche la traduzione italiana che definisce Gesù come “buon pastore”, funziona perfettamente. Gesù possiede una bellezza totalizzante, perché in Lui si manifesta la pienezza dell’amore, quindi della verità, della giustizia e della bontà. È vero, donando la sua vita sulla croce “egli non ha apparenza, né bellezza per attirare i nostri sguardi” (Is 53,2), ma il dono totale di sé lo rende “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal 44,3).
La bellezza di Cristo, dunque, non ha niente a che vedere con la vana attrazione fisica, che come il fiore del campo è destinata a sfiorire, ma esprime la bontà e la verità dell’amore donato. Egli dà la sua vita per le pecore, con generosità, senza riserve. Questa bellezza supera ogni qualificazione superficiale ed esteriore, perché emerge dalla parte più profonda del suo Essere umano-divino.
Non c’è niente di utilitaristico in lui, come avviene nel mercenario, che non è pastore. Nel mestierante, pagato per occuparsi delle pecore, c’è sfruttamento. A lui in realtà non interessa nulla di loro, ma vuole soltanto servirsene. In lui c’è solo la bruttezza dell’egoismo, dei secondi fini e del proprio interesse.
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La bellezza del pastore, invece, attrae le sue pecore, l’umanità di ogni razza, lingua, popolo e nazione, perché esse sentono l’amore incondizionato, che niente e nessuno può donare al di fuori del Padre e del Figlio. Quando le pecore si lasciano attrarre da questa bellezza e ne fanno esperienza, esse stesse sono rigenerate nell’unità e le forze disgreganti dei lupi rapaci non possono disperderle.
Loro stesse, attratte dall’amore incondizionato del pastore, ne riproducono i medesimi tratti, partecipando della sua bellezza e bontà. Contemplando la bellezza totalizzante di questo Pastore, che è Cristo, non ci resta che chiederci: in una società dell’apparenza, segnata da una ricerca ossessiva dell’estetica, siamo ancora in grado di cercare la vera bellezza?
Cosa conta di più per noi, la vera bellezza dell’amore gratuito e totalizzante, oppure quella falsa che seduce i nostri sguardi sull’esteriorità e su ciò che è utile o piacevole, ma destinato a sfiorire, come l’erba del campo?
Per gentile concessione di don Luciano Labanca, dal suo sito.