Don Luciano Labanca – Commento al Vangelo del 19 Giugno 2022

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Riflessi dell’Amore divino

 

La Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo nacque nella diocesi di Liegi in Belgio nel 1247 come reazione all’eresia antieucaristica di Berengario di Tours, che riteneva la presenza di Cristo solo simbolica e fu poi estesa a tutta la Chiesa nel 1264 da papa Urbano IV, dopo il riconoscimento del miracolo eucaristico di Bolsena, quando nelle mani di un sacerdote assalito da dubbi di fede, la Santa Ostia sanguinò lasciando tracce inequivocabili sui lini e sull’altare. Infatti, è proprio il rafforzamento della fede nella presenza reale di Cristo il fine di questa celebrazione: siamo invitati oggi in modo particolare a rinnovare la nostra fede e devozione nell’Eucaristia, attraverso una partecipazione attiva e consapevole alla Santa Messa e proseguendo anche con un momento di adorazione e processione per le vie della città, manifestando pubblicamente la nostra fede eucaristica.

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La ricchissima liturgia della Parola di quest’oggi ci presenta in apertura la figura misteriosa del sacerdote Melchisedek, re di giustizia, presentato per la prima volta dalla Genesi, come “sacerdote del Dio Altissimo”. Egli è figura del Messia e ne anticipa alcuni aspetti: la regalità, la giustizia, il legame con Gerusalemme, il sacerdozio e la relazione unica con Dio Altissimo. Egli compie alcune azioni specifiche: portare/offrire e benedire. Egli offre pane e vino come segno di amicizia, comunione e gioia all’esercito di Abramo, esausto dopo la guerra contro i 4 re e più profondamente, in virtù della sua dignità sacerdotale egli realizza un’offerta sacrificale. Melchisedek offre due elementi semplicissimi, frutti della natura e del lavoro dell’uomo. Il pane è segno del nutrimento per eccellenza, fonte di sostegno ed energia per l’uomo; il vino è bevanda per eccellenza, perché disseta, riscalda, distende, quindi “allieta il cuore dell’uomo” (Sal 104). Il profumo del pane e del vino attraversa tutta la Scrittura, dal momento che si tratta di elementi fondamentali per la vita dell’uomo.

Il pane, da elemento di sofferenza per Adamo, costretto a produrlo con il sudore del suo volto (cfr. Gen 3,19), diventa oggetto di offerta gradita a Dio, fino a giungere all’identificazione di Cristo stesso con il pane: “Io sono il pane vivo” (Gv 6,51) e alla sua scelta di renderlo segno sacramentale del suo Corpo nell’Eucaristia. Così il vino, causa di peccato e di disordine quando abusato, diventa segno della festa, della condivisione e della gioia ritrovata dall’annuncio dell’ora di Cristo nelle nozze di Cana (cfr. Gv 2,1-12), fino alla scelta di esso come segno sacramentale del suo Sangue nell’Eucaristia. La tradizione della Chiesa ha letto insistentemente il pane e il vino offerti da Melchisedek come figure dell’Eucaristia. La Chiesa orante, segue questa lettura tradizionale quando nel Canone Romano così prega: “Volgi sulla nostra offerta il tuo sguardo sereno e benigno, come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote” (Canone Romano). Guardando alle azioni del misterioso sacerdote, dunque, si colgono le due dimensioni tipiche dell’Eucaristia: quella di essere offerta a Dio (sacrificio) e quella di essere segno di condivisione con gli altri (comunione). La giusta comprensione del mistero dell’Eucaristia, dunque, è sempre offerta a Dio (vero sacrificio) e condivisione con i fratelli (banchetto).

Da tutto ciò sorge una domanda esistenziale anche per noi: come sono i nostri sacrifici e le nostre offerte quotidiane? Siamo consapevoli che se prima non riceviamo qualcosa dall’Alto, non abbiamo nulla da offrire? È evidente poi che se le nostre offerte, privazioni e penitenze, oltre ad essere orientate verso Dio, non guardano benevolmente anche ai nostri fratelli, esse rimangono inesorabilmente sterili e incomplete. D’altronde, Gesù stesso diverse volte ha fatto eco all’espressione di Osea: “poiché voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Questo atteggiamento di Gesù si trova anche nella pagina del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Quando i discepoli presentano al Maestro la necessità di congedare la folla perché non c’è nulla per loro in quella zona desertica, egli li invita: “Voi stessi date loro da mangiare”. È necessario un coinvolgimento diretto e personale, per realizzare questa condivisione. Nessuno può sottrarsi a tale dinamica. Tornando alle azioni di Melchisedek, si può vedere che dopo l’offerta, Egli benedice Abramo e Dio. Ci sono due specifici movimenti: uno discendente, in cui il re-sacerdote bene-dice, ossia fa scendere da Dio, l’Altissimo, creatore del cielo e della terra, una parola buona e irrevocabile su Abramo, facendogli dono di vita, fecondità e salvezza; l’altro, di carattere ascendente, in cui Melchisedek, bene-dice Dio per le opere compiute in Abramo. Questo accade in ogni preghiera della Chiesa e in particolare nella Santissima Eucaristia: Dio ci benedice e noi stessi, ricevendo la sua grazia, rispondiamo benedicendo Lui. Un particolare di grande interessante, poi emerge ancora dalla splendida figura di Melchisedek: egli è un uomo che non appartiene al popolo di Israele, ma è di origine cananea. Il riconoscimento di Dio come fonte del bene e destinatario della lode per le opere compiute nelle sue creature, non è dunque solo prerogativa del popolo di Israele, ma è e rimane una possibilità aperta per tutta l’umanità.

La figura di Melchisedek, dunque, diventa uno stimolo a liberarsi da ogni pregiudizio e discriminazione etnica, storica o sociale. La benedizione di Dio supera i confini del popolo di Israele, supera anche i confini visibili della Chiesa, perché vuole raggiungere ogni uomo, in ogni tempo e in ogni latitudine. Potremmo dire che il dono dell’Eucaristia fattoci da Cristo supera ogni barriera, è una benedizione e un cibo illimitato, offerto con generosità a tutti coloro che vi aderiscono nella fede. Il suo dono è sovrabbondante. Come ci ha ricordato il Vangelo: “Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste” (Lc 9, 17). In conclusione, l’episodio dell’offerta di Melchisedek si conclude con un’azione di Abramo: “Ed egli diede a lui la decima di tutto” (Gen 14,20). Il gesto di Abramo rappresenta ancora una volta la partecipazione attiva dell’uomo al culto divino, come già si intravedeva nei segni del pane e del vino. L’Eucaristia apre sempre alla comunione, alla condivisione e al dono. Il dono fattoci da Cristo con l’offerta della sua vita e ripresentato nel sacramento è la fonte di ogni altro dono. Chi accoglie il dono di Cristo, Eterno Sacerdote, non può a sua volta non coinvolgersi nel dono totale di sé ai fratelli. Ciascuno, che vuole essere discepolo di Cristo, dovrebbe seriamente interrogarsi se nella propria esistenza concreta viva tale dimensione del dono.

La carità, non come semplice atto del dare qualcosa, ma come atteggiamento del cuore e della vita del cristiano, non può mai essere soltanto frutto dell’impegno umano, prescindendo dal suo essere risposta ad un amore che ci precede. L’Eucaristia, dunque, per tale ragione è “Sacramentum caritatis”, sacramento dell’amore, della comunione e del dono. Dopo la partecipazione alla Santa Messa, all’Adorazione e ad ogni atto di culto eucaristico, possiamo dire che la nostra carità è cresciuta e il nostro amore verso i fratelli è aumentato davvero? In conclusione piace richiamare una bellissima espressione di Sant’Agostino, in cui contemplando il mistero dell’Eucaristia, egli afferma in uno slancio orante: “Mistero di amore! Simbolo di unità! Vincolo di carità! Chi vuol vivere, ha dove vivere, ha di che vivere. S’avvicini, creda, entri a far parte del Corpo, e sarà vivificato” (Commento al Vangelo di Giovanni, 26,13).

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