Don Luciano Labanca – Commento al Vangelo del 1 Novembre 2020

473

Il volto più bello della Chiesa

Nell’esortazione apostolica “Gaudete et Exsultate“, il Santo Padre parla della santità cristiana utilizzando un’espressione molto suggestiva: “La santità è il volto più bello della Chiesa” (GE, 9). Nella solennità di Tutti i Santi, la Chiesa ci invita a contemplare la bellezza di questo volto e a risvegliare in noi battezzati, “santi per vocazione” (Rm 1,7), il desiderio di condividere in pienezza questa sorte luminosa. Per comprendere il senso della santità, bisogna anzitutto considerare che il Santo è Dio, il “qadosh”, il separato, il Totalmente Altro. L’etimologia ebraica della parola “santo”, tuttavia, con la piena rivelazione di Gesù, viene in qualche modo superata. La sua santità, infatti, non lo allontana dagli altri, ma lo coinvolge pienamente nella vita degli uomini.

Il concetto di santità dell’Antico Testamento, in cui per rimanere puri bisognava prendere le distanze dagli altri, viene abbondantemente superata nella Persona e nell’insegnamento di Gesù. Egli, infatti, come Buon Samaritano dell’umanità assume su di sé l’uomo incappato nei briganti e manifesta tutto il suo amore per lui, rendendolo partecipe della sua stessa santità. Quando pensiamo alla nostra vita, qualche volta dimentichiamo che essere santi non è semplicemente assumere una forma di purezza esteriore, frutto della sforzo umano e del distacco dagli altri, quanto piuttosto un darsi agli altri, “sporcarsi le mani” con loro.

La vera santità, in altre parole, coincide con la perfezione della carità. Nello stesso documento precedentemente citato, papa Francesco ci mette in guardia da due rischi collegati all’idea di santità: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie che si trovavano nella Chiesa antica e che il Santo Padre richiama in chiave attuale come rischi per la nostra visione della santità: l’uno, il neo-gnosticismo, riduce la vera fede e quindi la santità ad una visione intellettuale e astratta, secondo cui solo chi capisce una dottrina può considerarsi un vero credente, potendo guardare gli altri dall’alto in basso. La santità, dunque, sarebbe soltanto un’idea, frutto dell’intelligenza.

Il Papa dice che questi neo-gnostici, “concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni ” (GE, 37). L’altro rischio viene definito da Papa Francesco come il “neo-pelagianesimo”, di chi – come gli antichi pelagiani – punta esclusivamente sullo sforzo personale di una perfezione morale senza alcun intervento della grazia. La santità si configurerebbe allora solo come uno sforzo di volontà, come una serie di azioni eroiche o di atti di mortificazione, senza il riconoscimento dei limiti che tutti noi abbiamo e che solo la grazia di Dio può aiutarci a superare.

Per avere una concezione di santità che superi i rischi dell’intellettualismo e del volontarismo, dobbiamo tornare sempre di nuovo a Gesù, il Maestro, il Santo. Scrive ancora Papa Francesco: “Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita. La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine” (GE, 63-64).