Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 30 Maggio 2021

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Celebrare la festa della Santissima Trinità significa festeggiare bellezza, grandiosità e gioiosità dello stare immersi nella vita divina. Il verbo battezzare, infatti, in greco significa “immergere”.

Mysterium Trinitatis: il mistero è qualcosa che per essere compreso deve passare dall’esperienza. Non si possono spiegare i colori a un cieco nato o una sinfonia a un sordo nato; entrambi, per comprenderli, devono farne esperienza. Il mistero dunque non è qualcosa di incomprensibile bensì di inspiegabile, di intraducibile.

Così è per la Santissima Trinità, di cui possiamo fare esperienza. Come cristiani riconosciamo la nostra creaturalità, cioè il nostro essere stati pensati e generati alla vita dal Padre, e di Lui sperimentiamo la paternità nella sua misericordia e generosità; siamo stati fecondati dalla parola del Figlio e salvati dal suo amore totale, incommensurabile; siamo consolati dalla tenerezza e dalla dolcissima potenza dello Spirito Santo.

Fare esperienza della Trinità significa entrare nella verità, e «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32); significa che ansie e angosce non prendono più il sopravvento nel momento in cui si sperimenta che la realtà dell’amore di Dio supera ogni nostra più sublime aspirazione. Questa percezione ha il potere di liberarci dal peccato, generato dalla paura che schiavizza l’uomo.

Il vangelo di questa solennità ci espone pienamente il senso della vita, che non ha la sua verità nella realizzazione personale bensì nella missione che Gesù consegna agli apostoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19); andate e immergete nella vita divina tutti i popoli, fate sperimentare loro i meravigliosi attributi del Dio Trinità; rendeteli discepoli, ossia possessori di una disciplina che li conduce alla verità tutta intera.

Ciò che Dio ha da consegnare all’uomo è la santità, perché il paradiso è la patria dei santi. La santità è la prospettiva più alta che l’uomo possa contemplare per se stesso ed è l’unica che Dio desidera farci conseguire. Il cammino di santità comincia quando smettiamo di pensare alla vita come un tempo di realizzazione personale, in cui ci sistemiamo in modo più o meno confortevole, ed entriamo invece nella nostra missione che, se è autentica, porterà inevitabilmente alla croce. Queste due categorie – realizzazione personale e missione – si oppongono continuamente e possono simboleggiare l’eterna lotta tra bene e male. Pensiamo a quanto grande sia la differenza di frutti derivanti da un matrimonio inteso come realizzazione personale, dunque volto alla soddisfazione del proprio ego, o come missione, cioè volto alla salvezza dell’altro. Lo stesso vale per la vita consacrata.

La missione porterà inevitabilmente alla croce, perché «il discepolo non è da più del maestro» (Mt 10,24). Ma la croce non mette fine alla missione, piuttosto mette fine alla realizzazione personale. La croce è il luogo teologico in cui fare esperienza della resurrezione, in cui toccare con mano che, se abbiamo la fede e il coraggio di fare nostre le parole esclamate da Gesù in croce, allora sperimenteremo che Dio ha il potere di farci risorgere più belli di prima e di salvare chi ci sta accanto. La croce da cui non scendere può essere, ad esempio, un matrimonio in frantumi (S. Rita da Cascia docet).

E se rimaniamo nella nostra missione: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo», ci rassicura Gesù (Mt 28,20): tutti i giorni Egli ci sostiene, in primis col sacramento dell’Eucarestia, a patto che rimaniamo nella nostra missione. Qual è la tua missione che ti ha portato in croce e da cui non devi fuggire?

Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli