Don Luciano Condina – Commento al Vangelo del 27 Marzo 2022

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Dalla sofferenza alla conversione: se cerchiamo un’identità distinta da quella del Padre, diventiamo l’ombra di noi stessi

Prima di raccontare la parabola del figliol prodigo, i farisei accusano Gesù di stare con i peccatori e sottolineano la fatica e la coerenza con cui essi portano avanti l’obbedienza alla legge; inoltre lo contestano rivendicando il loro sforzo di essere giusti, rimproverandolo velatamente sull’incompatibilità che dovrebbe esistere fra Gesù e i peccatori. Alla luce di questo, possiamo affermare che il personaggio importante della parabola – il più trascurato da tutti i commentari – sia il fratello maggiore, su cui la storia finalizza il problema, che, fondamentalmente, è irrisolto.

Stufo di stare a casa,  il minore chiede una parte di “sostanza” – ossia desidera “essere” qualcosa di più che un figlio nella casa del padre – e perciò rivendica la propria autonomia. La storia di questo allontanamento – luogo in cui siamo padroni di ogni bene – racconta il degrado, la solitudine e la fame che conseguono a tale scelta. Il peccato causa la perdita della propria identità e porta a nutrirsi di ciò che mangiano i maiali.

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A volte, purtroppo, è solo attraverso l’esperienza di dolore che riusciamo a fare verità su chi siamo e da dove veniamo, su quanto sia meravigliosa la casa del Padre abbandonata. Perché fuori da essa i desideri si snaturano, la regalità umana viene dissipata fino ad essere meno che persone. Non abitare più al riparo del Signore (cfr. Sal 90,1) porta a queste conseguenze.

Così è l’uomo quando cerca la propria gloria, la propria identità distinta da quella del Padre e si abbassa a diventare l’ombra di se stesso. Nel tentativo di esaltarci ci perdiamo svilendoci e perdiamo la grandezza che l’uomo possiede: la fiducia nel Padre e  la consapevolezza dei propri limiti.

Il momento chiave del processo di verità per il figlio minore sta nel “rientrare in se stesso”. La sofferenza per la condizione misera è motore necessario per avviare una conversione autentica: finché non odi ciò che ti trascina in basso non potrai veramente convertirti, termine che indica “tornare all’origine”. È importante sottolineare un oggetto particolare che il giovane riceve nella festa una volta rientrato dal padre: l’anello, che indica la recuperata dimensione di figlio, contenendo il sigillo di famiglia con cui si apponeva un timbro di proprietà sui contratti; era anche il sigillo necessario per riscattare i beni dai banchieri.

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Ma la festa che è accessibile a un uomo pentito è inaccessibile ad uno che si crede giusto: il fratello maggiore. Incapsulato nel senso del dovere, vive a casa propria come fosse uno schiavo, non osa chiedere niente di più di un capretto perché si aspetta di riceverlo, ragiona secondo il diritto e non è felice di stare col padre. Anch’egli è schiavo al pari come lo era prima il fratello.

Il minore ha ritrovato la propria identità nella povertà, lontano dal padre; il maggiore, ritenendosi giusto, non ha via d’uscita dalla sua condizione.

Quando un uomo si pente dei suoi errori estrae il meglio di se stesso, la sua bellezza. Ecco perché solo i peccatori possono essere salvati, al contrario dei giusti che rifiutano la salvezza poiché ritengono di non averne bisogno.

Questo vangelo della domenica Laetare è un invito a uscire dalle nostre recriminazioni per capire che l’obbedienza a Dio è premio a se stessa. Perciò possiamo prepararci a esclamare a gran voce nel preconio pasquale la paradossale espressione: «Felice colpa»!


Commento di don Luciano Condina

Fonte – Arcidiocesi di Vercelli