Questa domenica incontriamo un fariseo e un pubblicano, «fermatosi a distanza” (Lc 18,13). Entrambi pregano, ma il secondo sta più indietro rispetto al primo perché all’interno del tempio c’era una sorta di teologia dello spazio e le zone erano distinte: dei pagani, degli israeliti, dei leviti, dei sacerdoti, per arrivare fino al cuore del tempio ossia il Santo dei Santi, a cui solo il sommo sacerdote aveva accesso una volta all’anno.
Il fariseo prega usando molte parole, descrivendo se stesso e la sua vita; il pubblicano invoca: «Abbi pietà di me». Il primo vanta atti perfetti e puri: digiuna due volte la settimana e paga le decime di quanto possiede; il secondo vede solo il proprio peccato e implora misericordia.
Il fariseo, in fondo, è uno che parla solo di se stesso: la sua non è una preghiera perché, fondamentalmente, è centrato sulla sua realtà, su ciò che è e non è, su ciò che fa e non fa; ringrazia Dio, ma lo fa per un possesso, quello del proprio ego che è bello, ammirevole, presentabile. Il grottesco di costui, a parte il vanto inopportuno e sgradevole, è che in fondo non sta chiedendo niente e non costruisce un dialogo con Dio: è pura autocelebrazione priva di preghiera, perché parte da sé e lì resta.
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Il pubblicano, invece, non osa alzare gli occhi al cielo, che per lui è una “presenza”, non uno strumento da usare in modo utilitaristico; di fronte al cielo si pone contrito: si batte il petto, chiede perdono e misericordia, chiede di essere trasformato affinché si possa realizzare per lui quello che si celebrava nel giorno del gran perdono – iom kippur – il giorno della copertura del peccato; chiede quindi di ritornare nell’alleanza e di essere tolto da quello che sta vivendo.
Nella sua preghiera riconosce che solo Dio può fare qualcosa di buono: avere pietà. E la preghiera diventa relazione con Dio, senza essere autocontemplazione.
Il fariseo è simile a quelle persone che, quando ti incontrano, parlano sempre di se stesse esternando il proprio narcisismo, magari per rimestare la propria incompiutezza esecrando anche i propri errori; oppure è simile a quelli che ti fanno una domanda e mentre stai rispondendo ti interrompono cambiando discorso.
«Io non sono come gli altri» (Lc 18,11): il fariseo ha bisogno di un paragone per trovare qualcuno che sta peggio.
Evagrio Pontico nel trattare i vizi capitali afferma che «la radice di ogni ira è ritenersi giusti» e, per ritenersi giusto, un uomo deve confrontarsi con gli altri. Chi invece non si ritiene giusto si confronta con Dio.
Spesso nella preghiera andiamo avanti faticosamente, senza gioia e senza frutto perché restiamo ancorati al nostro atto di pregare. Impariamo invece l’arte di lasciarci trovare da Dio e di lasciarci ridimensionare, cedendo a Lui l’iniziativa, mettendo al suo cospetto l’infinita povertà e fragilità umana. Davanti a Dio abbiamo il diritto di essere poveri, senza aver più bisogno di essere in competizione e di rimanere nella faticosa ricerca della nostra giustizia, che non interessa a nessuno e ci rende solo capaci di giudicare.
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L’intima presunzione di essere giusti, in fondo ,costituisce disprezzo per gli altri, perché per sopravvivere alle nostre sconnessioni e riconsolarci troviamo qualcuno da disprezzare e da considerare peggiore di noi. Tutto ciò non ci porta da nessuna parte. L’unica cosa che ci conduce alla novità, a un giorno del perdono e del cambiamento è metterci nelle mani di Dio poveri come siamo.
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli