Permettiamo al Padre di essere con noi e la vita potrà diventare una grande avventura
Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, in due occasioni si rivelano molto simpatici nell’assurdità dei loro interventi. Una volta, usciti da un villaggio samaritano che non li accoglie, chiedono – molto cristianamente – a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54). Lezione sulla carità non ancora recepita. Inoltre, nel vangelo di questa domenica, molto umilmente dicono a Gesù: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Lezione sull’umiltà non ancora appresa. Oltretutto essi non stanno chiedendo, stanno esigendo: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (Mc 10,35).
Questo generalmente è l’approccio che noi abbiamo nel rivolgerci a Dio: Egli deve fare ciò che noi gli chiediamo. A quella richiesta arriviamo dai nostri percorsi, spesso idolatrici, in cui Dio generalmente non è stato molto preso in considerazione. E a un certo punto, quando le cose si complicano, esigiamo che intervenga a farci da cappellano personale su cose che, magari, con Lui non c’entrano nulla.
«Voi non sapete quello che chiedete» (Mc 10,38). Questo è il problema di tante richieste che vengono fatte a Dio. Gesù ha appena fatto ai discepoli il terzo annuncio della passione ed essi, invece, pensano alla gloria. La vita si profila cupa e dolorosa e noi chiediamo a Dio di non toglierci quelle quattro cose che ci danno un briciolo di sicurezza ma ci impediscono di sperimentare la sua gloria. Invece di sperimentare la sua gloria nella nostra vita, gli chiediamo di darci una gloria solo nostra, che ci pone al di sopra degli altri e, dunque, distanti dagli altri; infatti gli altri dieci apostoli giustamente si indignano parecchio di fronte alla richiesta dei due fratelli (Mc 10,41).
C’è poco da fare: la gloria di Dio, la gloria vera, può essere sperimentata solo affrontando la tempesta, la bufera, l’incendio, la difficoltà, la malattia, l’abbandono, la solitudine… in una parola: la croce. L’errore dell’uomo è considerarla un incidente di percorso che non deve verificarsi, per il quale magari si incolpa Dio. Invece Gesù passa dalla croce e da quella scaturisce la risurrezione. Non c’è risurrezione senza croce che la precede. Non si può toccare con mano la gloria di Dio se non durante e dopo una croce.
Dio non toglie l’incendio verso cui stai entrando, bensì ti dà gli strumenti per non morire ustionato. Ti mostra che con Lui tu sei più forte dell’incendio e puoi affrontare qualunque cosa da sacerdote, re o profeta, con la dignità più alta cui l’uomo è destinato. E finché di questo non si fa esperienza la fede rimane una pratica esteriore, uperficiale. Chiediamo allora a Dio di non allontanare da noi il calice amaro, ma di berlo come Gesù, con la sua dignità, la sua forza, la sua fede. Egli, per poterlo fare, prega ardentemente il Padre: lo stesso facciamo noi. Cristo è sacerdote, re e profeta perché il Padre è con lui.
Lo stesso possiamo essere noi, se permettiamo al Padre di essere con noi. Dio, in quanto Padre, è disposto a fare qualunque cosa per la nostra santità, il suo più grande progetto per noi. Solo così la vita diventerà una grande avventura in cui Dio può scrivere, attraverso la nostra esistenza, pagine nuove di santità, di bellezza luminosa, preziosa per il mondo, che brancola nel buio agognando miraggi di felicità illusorie che puntualmente si frantumano sulla croce di turno.
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli