La mancata presenza degli invitati alla festa di nozze del figlio del re introduce a uno scenario a tinte forti, che veicola il messaggio di questa parabola con linguaggio paradossale e contrasti netti. L’invito del re è qualcosa di bello – dice usualmente «questo per me è un invito a nozze» – e sono presenti anche i particolari succulenti, imminenti della bellezza della festa: «i buoi e gli animali ingrassati già uccisi e tutto è pronto» (Mt 22,4). Come dire: manchi solo tu!
La risposta degli invitati è strana e violenta, perché arrivano ad uccidere i messaggeri che, ovviamente, alle orecchie dei capi di sacerdoti e farisei simboleggiano i profeti, rifiutati e uccisi da Israele. È evidente che gli invitati di questa parabola non hanno compreso la natura e l’importanza della festa.
Rimanendo sul paradosso con un pizzico d’ironia: anche noi, ricevendo certi inviti di matrimonio non ne siamo entusiasti, pensando allo svenamento che comporterà il regalo, arrivando a dire persino: “speravo fosse una multa” e facciamo i conti: “se andiamo in tre sono duecento euro a persona…”, avviando ragionamenti tattici su chi escludere alla partecipazione senza offendere nessuno.
È un po’ la stessa dinamica con cui affrontiamo l’invito alle nozze di Dio, il tipo di esistenza che Egli ha preparato per noi: non pensiamo alla bellezza, alla ricchezza, alla pienezza di vita, alla festa che solo Dio può avere in serbo per noi, e ci concentriamo invece su ciò che Egli vorrebbe da noi, sull’ennesima tassa che pure Dio esigerebbe, dopo tutte quelle che la quotidianità già riscuote. In realtà non abbiamo ancora compreso, se non superficialmente, che alla festa di Dio possiamo davvero partecipare senza un regalo, perché per lui il regalo è la nostra presenza! E basta pensare alla gioia che hanno i nostri genitori quando li incontriamo per capire quanto ciò sia vero, e che da loro possiamo sempre arrivare a mani vuote.
Facciamo fatica a crederlo perché anche noi, quando qualcuno arriva a mani vuote a un compleanno e ancor più a un matrimonio, a chi è senza regalo diciamo: “l’importante è che tu sia venuto”, tentando di mascherare l’ipocrisia che spesso si nasconde dietro questa affermazione.
Una sola cosa ci chiede Dio: di arrivare con l’abito pulito, splendente, l’abito della festa appunto. L’abito è l’immagine della nostra anima; l’abito simboleggia il nostro aspetto e la nostra condizione spirituale. Alla festa di Dio si può accedere solo con l’abito da cerimonia, candido e senza macchie.
La festa a cui Dio ci invita può essere letta in chiave terrena o celeste.
Nel primo caso è la vita a cui Egli ci chiama in questo mondo, la missione insita nella nostra esistenza, che va svolta con purezza di intenzioni, leggerezza di cuore e fiducia totale nella bontà di Dio, nella consapevolezza che la vera festa è poter svolgere questa missione, che è missione di Dio e non nostra.
In chiave celeste la festa è la vita nel regno di Dio, il regno dei beati al quale non si può accedere se non da santi, perché «il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui» (Lc 7,28) (lui è Giovanni Battista).
«Molti sono i chiamati e pochi gli eletti» (Mt 22,14): alla festa tutti sono invitati, ma tanti si negano ritenendo che la propria quotidianità – triste, pesante, redditizia, ebbra, ansiosa – sia migliore di quella a cui Dio ci invita.
La chiamata è un dono, l’elezione una scelta.
Commento di don Luciano Condina
Fonte – Arcidiocesi di Vercelli