Il catechismo di Gesù sulla preghiera
La lettura del libro della Genesi e la pagina del Vangelo di Luca sono al centro dell’annuncio di questa domenica. Ci rivelano il volto misericordioso e amante di Dio ,come pure il Suo volto paterno.. questa rivelazione viene appresa nel contesto della preghiera. Nel brano della Genesi, questa rivelazione emerge in modo acuto nel dialogo tra Dio ed Abramo, sul destino di Sodomia e Gomorra. Il grido contro queste due città è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Dio vuole scendere e vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a Lui: Dio, giudica giusto, non giudica per sentito dire, ma vuole fare l’indagine personale.
Questa concezione popolare di Dio, anche se va contro l’attributo della sua onniscienza, offre la cornice adatta per il colloquio con Abramo. Abramo pone a Dio la domanda cruciale sulla giustizia: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio?”, cioè l’innocente con il reo. Il padre dei credenti parte dal principio che, in una comunità di malvagi, vi possa essere una minoranza di persone buone. Dio, se è giusto, non può fare perire tutti insieme, anzi, Dio potrebbe risparmiare l’intera comunità grazie alla presenza di questi giusti, così che i giusti non siano trattati come gli empi. Nella sua intercessione, Abramo parte da cinquanta giusti fino a dieci, questo numero minimo per fare una comunità.
Ogni volta Dio dichiara di voler risparmiare la città per riguardo della minoranza dei giusti che vi si trovano. La fonte e il garante di ogni giustizia non può condannare il giusto assieme all’empio. In questo caso, è preferibile sospendere la sanzione collettiva, per rispettare proprio il principio della giustizia divina. Sappiamo come va a finire la storia di queste due città malvagie ed empie :sono state travolte nella catastrofe. Tuttavia il principio della giustizia nel giudizio di Dio è stato rispettato, perché il giusto Lot, con la sua famiglia, è stato salvato. Questo volto della giustizia di Dio corrisponde alla sua misericordia .
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Nel brano evangelico, uno dei discepoli di Gesù gli dice: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli.” Prima di tutto. Bisogna ricordare che Gesù ha insegnato a pregare ai suoi discepoli col suo esempio. Il Terzo vangelo riporta almeno sette momenti di preghiera che scandiscono le scelte di Gesù. Anche l’insegnamento del “Padre nostro” è preceduto dalla preghiera solitaria del maestro. Questa preghiera comporta due parti essenziali: la prima riguarda Dio (“sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”); la seconda riguarda l’uomo, con tre domande (“Dacci il nostro pane quotidiano, perdona le nostre colpe, e non indurci in tentazione”).
La differenza di questo “Padre nostro” lucano, rispetto a quello di Matteo, è una maggiore essenzialità, poiché la preghiera dei discepoli di Gesù, prima di essere una formula da recitare, dovrebbe essere una relazione da vivere. Essi stanno davanti a Dio con l’attitudine di figli che possono chiamarlo ”Padre”. E’ così che Gesù pregava, e i sentimenti che Egli esprime sono quelli che aveva nei confronti del Padre, tranne per quanto riguarda la domanda sul perdono dei peccati.
Per illustrare la relazione vitale con Dio, che è la sostanza della preghiera o l’attitudine di fondo rispetto alle parole da dire, Gesù propone due piccole parabole: La parabola dell’amico importuno e analogamente quella del figlio che chiede qualcosa da mangiare al padre.
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L’applicazione della prima (quella dell’amico importuno) raccomanda la preghiera fiduciosa, insistente, perfino testarda. Dio è molto più disponibile di qualsiasi amico. Anche nella seconda parabola, l’accento è posto sulla fiducia che deve sostenere qualsiasi preghiera. “Chiedete e vi sarà dato…”. Come conciliare questa assicurazione dell’esaudimento certo della preghiera con l’esperienza quasi quotidiana che sembra smentire questa promessa? Infatti la nostra preghiera raggiunge e tocca sempre Dio. E poi Dio interviene sempre, anche se non sempre “quando” e “come“ vorremmo noi.
Dio potrebbe far sparire gli ostacoli che ingombrano il nostro cammino, oppure può lasciare le cose come sono, almeno nell’apparenza, per mettersi in strada con noi, disposto a condividere gli stessi rischi. Rimangono gli stessi, ma sei tu che non sei più lo stesso, sei diverso se hai pregato; la tua forza non è più soltanto la tua forza: pregando hai ricevuto un supplemento di forza e di capacità. Non è quindi il caso di lamentarsi perché Dio non ci ha concesso quelle determinate grazie. In realtà abbiamo ottenuto immensamente di più: non delle cose, ma lui stesso, la sua presenza.
Non sorprende allora la promessa del dono dello Spirito Santo. Il Signore non ci dà le cose inutili o pericolose, ma le cose in rapporto con i beni spirituali e con la nostra salvezza. Pregare non significa, quindi, imporre a Dio la nostra volontà, ma domandargli di renderci disponibili al suo disegno di salvezza, e di renderci veri figli.
Don Joseph Ndoum