A modo mio avrei bisogno di pregare Dio
Ritroviamo Gesù lì dove lo avevamo lasciato Domenica scorsa: nella sinagoga di Nazareth. È il paese dove è cresciuto, tutti lo conoscono, o almeno credono di conoscerlo, come il figlio di Giuseppe. Così lo vedono anche ora in sinagoga: il figlio del falegname che vuole insegnare loro chi è Dio. La loro meraviglia non nasce da quello che Gesù gli sta annunciando ma dal fatto che sia proprio Lui ad annunciarlo.
Perché dalla meraviglia non riescono a passare alla fede? I nazareni sono bloccati dall’immagine che si sono creati di Gesù e non riescono ad andare oltre. È un rischio che corriamo anche noi quando non riusciamo ad andare oltre l’idea di Dio che ci siamo creati e che non sempre coincide con il Dio annunciato da Gesù.
Dobbiamo confessare che a volte vorremmo un Dio secondo le nostre esigenze, che si comporti seguendo i nostri desideri e che faccia i nostri interessi. C’è chi scambia Dio per un dispenser di miracoli e chi si ricorda di Lui solo per accusarlo dei propri fallimenti. Per non parlare delle volte che noi stessi ci costruiamo un Dio e una fede in modalità Ikea: con il minor costo/sacrificio possibile e seguendo delle istruzioni non sempre chiare. Il fatto è che proprio quando ci allontaniamo dalle istruzioni/insegnamenti originari e vogliamo fare a modo nostro, quello che ne esce fuori è una fede traballante, debole e poco affidabile.
È semplice avere una fede “a modo mio”, come cantava Dalla, mentre più difficile è comprendere un Dio che si comporta esattamente all’opposto dei ragionamenti umani. Ecco perché quelli che non si aspettano niente da Dio ma confidano nel suo amore, riescono più facilmente ad ottenere e riconoscere la potenza della sua misericordia nella loro vita.
Non a caso gli esempi riportati da Gesù nel Vangelo riguardano la vedova di Sarepta e Naaman il Siro, cioè due stranieri, non giudei, e quindi considerati non appartenenti al popolo eletto da Dio. Questi stranieri, attraverso l’azione dei profeti, vengono associati inconsapevolmente alla storia del popolo amato da Dio. Da un lato una povera vedova, dall’altro un potente capo dell’esercito del re arameo. Entrambi, obbedendo ai profeti, trovano la salvezza solo dopo aver rinunciato a qualcosa di proprio, a qualcosa che consideravano essenziale: la vedova di Sarepta donerà il suo ultimo pugno di farina in tempo di carestia e Naaman rinuncerà a quell’orgoglio da fiero militare che gli impediva accettare l’ordine di bagnarsi nelle acque del Giordano per guarire. Questi due esempi che Gesù fa irritano, tanto i nazareni quanto noi, proprio perché ci mettono dinanzi ad una triste realtà: siamo più bravi a chiedere che non a rinunciare a qualcosa che ci appartiene, anche se questo è in vista di un bene più grande. Questo vale sia nella vita di fede che nel quotidiano e forse ne abbiamo avuto la conferma proprio in questo ultimo periodo storico nel quale la pandemia ha fatto evincere di quanto egoismo e individualismo l’umanità sia capace.
Dio, invece, è amore, è carità; quella carità che San Paolo ci dice essere magnanima, benevola che «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». Eccolo il nostro Dio.
L’annuncio di Gesù, perciò, è oggi ancora più sconvolgente e chi lo ascolta ha due possibilità: o trova il coraggio di seguire il Dio autentico rivelato da Gesù oppure allontana quest’ultimo dalla propria vita, così come faranno i nazareni che preferiscono restare nella comodità delle loro convinzioni.
Non facciamo il loro lo stesso errore ma in quanto «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19) non lasciamo andare via Gesù dalla nostra vita, non spingiamolo sui dirupi delle nostre paure. Accogliamolo.
Fonte: il sito di don Ivan Licinio oppure la sua pagina Facebook oppure il canale Telegram