Il velo strappato
Ma se siamo la religione della resurrezione di Gesù perché ha così tanto spazio l’immagine della croce come simbolo della nostra fede? I primi cristiani che nell’uso delle immagini erano molto minimalisti per distinguersi dal paganesimo, e non rappresentavano mai la croce e tanto meno il crocifisso, cioè l’uomo Gesù morto che pende da quella croce. Ci sono voluti secoli per iniziare a vedere un crocifisso nei luoghi di culto cristiani.
Non è che insistere sull’immagine del crocifisso si cada in una visione troppo “doloristica” del cristianesimo, con una esaltazione della sofferenza come unica via per avere il “premio” celeste, e contemporaneamente si oscuri la resurrezione?
In un film comico di una ventina di anni fa, “Dogma”, si immagina la Chiesa che per rinnovare il suo modo di comunicare la fede e avvicinarsi alle nuove generazioni, sostituisce il tradizionale simbolo del crocifisso, ritenuto troppo triste e superato, con quello di “Gesù compagnone”, una statua simpatica di Gesù che strizza l’occhio e fa il gesto del “like”.
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Quest’anno come racconto della passione di Gesù, seguiamo il Vangelo di Marco. L’evangelista riprende le stesse vicende narrate dagli altri evangelisti, però a differenza degli altri tre sottolinea maggiormente la totale solitudine di Gesù nel processo e nella crocifissione, il totale abbandono e la tragedia senza alcuna consolazione e aiuto dai discepoli. Nel racconto di Marco sono riportate pochissime parole di Gesù, che sembra non aver molto da dire a chi lo insulta e accusa ingiustamente. E sotto la croce non ci sono gli amici, nessuno che sia dalla sua parte. E l’ultima cosa che esce dalla bocca di Gesù è solamente un grido.
La cosa più straordinaria che mi ha sempre colpito è che è proprio un centurione romano a fare l’affermazione più alta che rivela chi è Gesù: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. È un pagano lontano dalle tradizioni ebraiche e dagli insegnamenti dati da Gesù ai suoi amici a riconoscere Dio in Gesù. Nel buio totale dell’esperienza umana di Gesù si accende il faro della fede. Nel racconto Cristo non è ancora sepolto e non è ancora risorto, ma in questa frase del pagano c’è già la Pasqua. Dentro la morte è già possibile vedere la vita. La resurrezione si intravede già qui sul monte Calvario, nel bel mezzo della tragedia.
C’è un dettaglio narrativo un po’ strano, ed è il velo del Tempio che si squarcia al momento della morte. L’evangelista ci vuole dire che proprio nella morte di Gesù finisce ogni separazione tra sacro e profano, tra realtà di Dio e realtà dell’uomo, tra infinito e finito, tra Cielo e Terra. Proprio dentro questa morte umana, dentro questa tragedia che sembra la sconfitta di Dio, in realtà c’è Dio in pienezza con il suo amore.
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La croce di Gesù rappresenta in pieno la vita dell’uomo. Non è l’esaltazione fine a sé stessa del dolore, ma la croce ci dice che la vita umana è limitata, segnata da fragilità e peccato. Noi vorremmo vivere come divinità immortali, e facciamo di tutto per esserlo, anche se questo porta a schiacciare il prossimo nella ricerca solamente del proprio bene. Ma per quanto lo neghiamo e non ci pensiamo, in realtà non siamo immortali, non siamo infallibili ed eterni.
E Dio infinito è entrato dentro questo nostro mondo finito con Gesù, “dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce” (Filippesi 2,6-11).
La croce è il simbolo più grande della nostra fede, perché ci ricorda che dentro la vita umana, dentro ogni vita, ogni vicenda umana, anche la più limitata, c’è Dio. Quando condivido la vita delle persone che ho accanto, quando mi prendo cura di chi soffre, quando rimango accanto anche a chi sbaglia, quando mi accorgo dei miei errori, quando non volto lo sguardo dall’altra parte davanti ad una ingiustizia… io vedo Gesù in croce, e quindi vedo Dio. Riconosco Dio dentro la vita umana proprio come ha fatto quel centurione pagano.
Penso che come Chiesa continueremo a comunicare nel modo giusto il Vangelo non ricucendo il velo del Tempio, non tornando a separare il nostro mondo ecclesiale dal mondo fuori, non imprigionando Dio solamente nelle liturgie formali e conservando le tradizioni. Comunicheremo il Vangelo lasciando il velo aperto, e cercando il volto di Dio e la sua voce, nel volto e nel grido dei nostri fratelli e sorelle.
E diventeremo noi stessi, con la nostra voce, con i nostri gesti e la nostra vita l’immagine più vera della resurrezione di Gesù.
Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)