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don Giovanni Berti (don Gioba) – Commento al Vangelo del 23 Giugno 2024

Domenica 23 Giugno 2024
Commento al brano del Vangelo di: Mc 4, 35-41

La fede in cattive acque

“Non ti importa che siamo perduti?”. È quello che i discepoli gridano a Gesù che sta dormendo tranquillo mentre la barca sulla quale si trovano lui e i suoi discepoli rischia di affondare in mezzo alla tempesta.

la vignetta di don giovanni berti

È un grido di aiuto che diventa un’accusa molto forte. Quel “noi siamo perduti” sembra indicare solo i discepoli e non Gesù che è sulla stessa barca, e le parole sembrano intendere non solo il morire fisico ma la perdita di tutto, la catastrofe definitiva di ogni futuro.

L’evangelista Marco pare proprio che non ci voglia solamente raccontare un fatto accaduto miracoloso, ma vuole ampliare lo sguardo a tutta la vicenda di Gesù e a quello che accade alla Chiesa fin dalla prima comunità cristiana.

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In quella barca che sta navigando in acque agitate verso nuovi approdi, possiamo vedere la comunità dei cristiani, la Chiesa.

La Chiesa fin da subito, dai giorni immediatamente successivi alla Pasqua, si è trovata ad affrontare la tempesta della vita con onde alte che rischiano di farla affondare subito. Sono le onde delle persecuzioni, le onde delle divisioni interne, le onde delle tante sofferenze e difficoltà che capitano all’improvviso. La barca della Chiesa che aveva la missione di portare Gesù a tutti i popoli sembra troppo piccola e debole per affrontare la tempesta della storia. E che cosa fa Gesù? Il Signore che dovrebbe assicurare protezione e stabilità sembra dormire indifferente.

Il grido dei discepoli (“non ti importa che siamo perduti”) che sveglia Gesù, è una vera e propria preghiera che raccoglie la difficoltà di credere e affidarsi al Signore.

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Gesù nel racconto, con un ordine perentorio alla tempesta, riesce a riportare la sicurezza e la calma per la barca. Ma poi lui interroga i discepoli. Non li accusa, ma li mette di fronte a loro stessi: “perché avete paura?” e “non avete ancora fede?”. Per i cristiani la vita con i suoi problemi e ostacoli improvvisi, è occasione per fare chiarezza dentro di sé, dentro alla comunità.

Cosa davvero ci fa paura? Cosa è per noi credere in Gesù? Ci fidiamo davvero di lui? Lo sentiamo lontano e indifferente?

E soprattutto, come succede ai discepoli e come Marco ci ricorda nel racconto, ci domandiamo “chi è costui?” Chi è Gesù per me, per noi, per il mondo?

La tempesta ha svegliato il cuore e la mente dei discepoli, perché Gesù era addormentato non tanto sulla prua della nave, ma dentro di loro, Gesù era indifferente e distaccato nel loro mondo interiore. La tempesta delle vicende drammatiche della vita toglie noi cristiani dalle sicurezze raggiunte e dal quieto vivere di rendita nella vita religiosa. Le onde che ci cadono addosso quando stiamo male, quando qualche ingiustizia ci colpisce, quando non siamo più tranquilli come cristiani, sono occasione per svegliare il Gesù che abbiamo dentro e per sentirci dire da lui nel cuore: ma in cosa credi? Chi sono io per te?

E come Gesù nel racconto ascolta il grido dei suoi amici impauriti e smarriti, così anche noi, che abbiamo Gesù dentro, non possiamo non ascoltare il grido di paura di chi sta male, di chi soffre e chiede aiuto.

Se come cristiani non facciamo nulla e ci rifugiamo quieti nei nostri piccoli angoli in pace, mostriamo al mondo un Gesù addormentato e indifferente, e tutto sommato lontano.

Non abbiamo il potere “magico” di fermare con una sola parola tutti i mali sconvolgenti del mondo, ma possiamo però iniziare a fare qualcosa, e più siamo uniti più la nostra voce e il nostro operato sono potenti.

“Non ti importa che siamo perduti?” è un grido quanto mai attuale in questi giorni in cui abbiamo assistito ad altri drammatici naufragi di migranti nel Mediterraneo. Siamo addormentati anche noi e rimaniamo tranquilli nel nostro angolo sicuro dei nostri piccoli problemi, o apriamo gli occhi e ci ricordiamo che nel mare della Storia siamo tutti sulla stessa barca?

Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)

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