Facciamo che io ero
Qualche anno fa in Televisione hanno trasmesso un simpaticissimo programma di varietà dal titolo “Facciamo che io ero”, realizzato da Virginia Raffaele, artista davvero geniale nelle imitazioni. Il titolo prende spunto da una frase tipica dei giochi dei bambini che quando vogliono impersonare qualcuno dicono proprio così: “facciamo che io ero…”, cercando il più possibile di immedesimarsi nel personaggio con il quale vogliono giocare.
Virginia Raffaele così come tanti altri imitatori, come ad esempio Maurizio Crozza, tanto per citarne un altro famoso e geniale, cercano di rappresentare sia nell’aspetto ma soprattutto nel modo di parlare e fare qualche personaggio famoso, evidenziandone in maniera caricaturale alcuni aspetti tipici e difetti, per suscitare una risata e anche far riflettere. È specialmente con i personaggi della politica e anche della religione che gli imitatori si scatenano per mettere in luce limiti e criticità. La satira in questo modo non vuole offendere ma dare una scossa e magari invitare a rivedere certi modi di fare sbagliati.
Possiamo dire che tra i tanti modi con i quali Gesù fa il Maestro ai suoi discepoli e contemporanei c’è anche spazio per le imitazioni e la satira, e l’evangelista lo ricorda proprio in questo brano. Quando leggo questo passo del Vangelo nel quale si narra di una donna straniera che implora Gesù per la figlia malata e lui la scansa in tutti i modi arrivando anche da offenderla, rimango stupito e mi domando dove vuole arrivare, perché non è quel Gesù che mi aspetto.
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Gesù da buon ebreo del suo tempo non fa altro che comportarsi come ci si doveva comportare con stranieri, pagani e donne, cioè li evita e li tratta con distacco. Arriva a paragonare la donna ad un cagnolino, e anche in questo non fa altro che rispettare la mentalità del tempo, secondo la quale lo straniero pagano era come un cane, uno degli animali più impuri e bassi. Anche l’intervento dei suoi discepoli non è dettato dalla carità ma dal fastidio, e chiedono a Gesù di far qualcosa per liberarsi al più presto della donna straniera.
In questo momento Gesù non sta facendo Gesù, ma sta imitando proprio la mentalità dei suoi discepoli e contemporanei e magari anche un po’ noi oggi. Gesù che non ascolta la richiesta di aiuto, che non accoglie l’altro perché diverso, arrivando all’offesa verbale (che con il disinteresse pratico diventa anche fisica), sta in qualche modo giocando a “facciamo che io ero…” i discepoli e anche noi oggi.
La stessa donna all’inizio non ha ben capito chi è Gesù e infatti lo chiama con un titolo che a Gesù va stretto e non lo rappresenta, cioè “figlio di Davide”. La chiusura iniziale di Gesù così assurda in realtà smaschera il vero volto della donna, che arriva a chiamarlo “Signore…” e a insistere così tanto da mettere in luce una fede esemplare.
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La donna non gioca e non fa finta con la sua difficoltà, la sua umanità e bisogno. Non sta giocando al “facciamo che io ero…”, ma realmente lei è un essere umano che ha bisogno e si rivolge all’amore di Dio in Gesù.
Con la frase finale (“Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri”), Gesù toglie la maschera da imitatore. Il Maestro non scherza più, ma mette in luce la grandezza di questa donna, anche se gli altri la vedono solo con una maschera addosso di femmina straniera e pagana… Questa donna ha una fede esemplare così forte da operare miracoli. Dalle parole di Gesù infatti sembra proprio che sia per la sua fede che la figlia si ritrova guarita.
Facciamo che io ero… come Cristo. Che cosa significa per me, per noi come comunità? Tante volte sento critiche non solo sui preti, come lo sono io, ma anche sul mondo dei cristiani e la Chiesa. Tante critiche e caricature magari le sentiamo ingenerose ed esagerate, ma contengono qualcosa di vero che ci può scuotere e migliorare. La caricatura che spesso ci viene fatta è quella di non essere accoglienti e di alzare barriere e giudizi nella comunità. Mi vengono in mente le parole forti di Papa Francesco alla GMG del Portogallo, quando a Fatima ha ribadito l’impegno di essere Chiesa per tutti, aperta a tutti. “Todos, todos, todos” ha insistito in lingua portoghese, ed è questo che dobbiamo fare in modo di essere.
Facciamo che io sono come Cristo…ma non per gioco, ma ogni giorno.
Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)