don Giovanni Berti (don Gioba) – Commento al Vangelo del 13 Febbraio 2022

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Se serve, ci sono

Il Vangelo ci invita a fare la scelta non tra ricchezza e povertà ma tra essere liberi o essere schiavi dei beni, a possedere le cose ma senza farci possedere dalle cose. Solo se condividiamo e non abbiamo paura di essere un po’ più poveri allora nel Regno di Dio non saremo comparse ma protagonisti. (DOMENICA 13 febbraio 2022 VI anno C)

Oggi Gesù davvero rischia tanto con quello che dice…

Rischia di risultare fortemente ingiusto e anche contraddittorio!

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“Beati voi poveri…” sono le parole con cui inizia a rivolgersi ai suoi discepoli, rincarando poi con i successivi “beati voi che avete fame e voi che piangete…”.

È questo il messaggio del Vangelo? Gesù invita alla sopportazione della povertà senza impegnarci a combatterla? Gesù invita a non far nulla per chi è nella miseria economica e per chi soffre fame e tristezza?

Gesù appare quasi contradditorio quando sembra voler bilanciare il “beati…” con l’altra espressione che è “guai a voi…”, e qui condanna i ricchi, coloro che sono sazi e quelli che ridono. Perché sono da condannare tutti coloro che hanno dei beni, magari accumulati in modo onesto con il lavoro? E perché è un male avere la pancia piena e soprattutto che male c’è nel ridere?

Forse questi miei dubbi sono comuni a quelli di altri che si pongono tanti interrogativi riguardo queste righe del Vangelo. Penso che sia un bene non far tacere tutte le domande e i dubbi che possono nascere. Anzi penso siano fondamentali. Se le parole di Gesù non suscitano interrogativi e anche qualche interiore protesta, allora significa che non stiamo affatto ascoltando, e davvero il Vangelo rimane chiuso in un cassetto remoto della nostra vita.

È bene dunque ritornare discepoli e cercare di capire quello che queste parole di Gesù vogliono dirci, perché il Maestro vuole scuoterci dal nostro torpore religioso ed esistenziale.

Prima di tutto è bene ricordare che Gesù usa il linguaggio della sua epoca, e lo stile comunicativo di allora era quello delle “benedizioni/maledizioni” che volevano toccare sul vivo gli ascoltatori, ma non dividerli in buoni e cattivi, benedetti e maledetti. Quello che viene detto nel “beati voi” e “guai a voi” è riferito alle stesse persone che si trovano a vivere sempre tra l’una e l’altra parte. E poi il “guai a voi” non è un augurio di male ma è più simile ad un lamento, un “mi dispiace per voi che…”, “ahimè voi che…”.

Poi è importante ricordare che il Maestro con queste parole non sta parlando a tutti, ma ai suoi discepoli, che avevano scelto di lasciare tutto per stare con lui, che avevano capito che per cambiare il mondo nello stile di Gesù bisognava mettere Lui come prima ricchezza e che questo poteva sempre comportare rinunce faticose e anche poco allegre. Gesù parla ai discepoli dicendo loro che la povertà anche materiale che hanno scelto li fa protagonisti del piano di Dio che vuole rendere il mondo come il suo regno, dove nessuno è misero, solo, abbandonato, e soprattutto nessuno è triste. È davvero un guaio (“guai a voi…”)

se dimentichiamo questa opportunità offerta di essere liberi dai condizionamenti dei beni materiali, anche quando li possediamo. Sarebbe davvero un guaio, che rattrista il Signore prima di tutto, se non siamo noi a possedere i beni ma sono i beni a “possedere” noi, rendendoci cinici e chiusi, preoccupati di ridere per noi stessi e non di noi stessi. Il discepolo è povero ma non misero, possiede i beni che la vita gli ha dato (con onestà ovviamente) ma non è prigioniero dei beni e così trova sempre nuove strade per condividerli.

Beati siamo noi se crediamo a questa proposta del Vangelo, anche se talvolta sembra una follia dal punto di vista del calcolo umano, ma è l’unica che davvero trasforma il mondo in un luogo di sorrisi condivisi, con tutti. “Guai a me se non annuncio il Vangelo!” dice San Paolo nella prima lettera ai Corinti… Guai a noi se non diventiamo ricchi di Vangelo, e quindi ricchi di umanità…anche se ci costa tutto l’oro del mondo.


Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)