Le parole odierne di Gesù seguono immediatamente la proclamazione delle Beatitudini, unica via per essere veramente felici secondo il vangelo. Siamo ancora sul monte, Gesù sta parlando ancora ai suoi discepoli. Saranno parole tanto più comprensibili quanto più sarà autentica l’accoglienza di quella via indicata. Non si possono vivere queste parole senza quelle. È evidente che il tema principale della liturgia della parola di questa domenica sia il discepolo di Cristo come luce. Nella 1a lettura, nel salmo e nel vangelo, si parla ripetutamente ed esplicitamente di luce. Solo la 2a lettura ne parla indirettamente, attraverso il discorso paolino sulla sapienza della croce e la manifestazione dello Spirito. Se Gesù è la luce del mondo, il suo discepolo si riconoscerà dalla luce che il suo volto riflette, dalla luce che la sua parola e le sue azioni diffondono. Dovunque sia, egli porta quella luce: voi siete la luce del mondo. Chi porta e custodisce la presenza di Dio nel suo cuore, farà crescere inesorabilmente quella luce. E non solo.
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Gesù infatti afferma un’altra caratteristica dei suoi discepoli: voi siete il sale della terra. Come se dicesse: “siete uomini come gli altri, tratti dalla terra, che vivono e muoiono sulla terra. Ma nello stesso tempo, per il fatto che dentro di voi è nascosto qualcuno che da sapore e vigore a questa fragile vita terrena, non siete come gli altri. Non vi dico che siete migliori degli altri, dico che siete la differenza”. Gli altri invece, hanno bisogno di assaporare e contemplare questo sale e questa luce per poterli scoprire in sé. Da giovane io non ho mai cercato il Signore. Lui è venuto a cercare me, e lo ha fatto così: ho visto per la prima volta un prete felice; nel corso di una celebrazione eucaristica da lui presieduta, ho sentito che le sue parole avevano un altro sapore alle mie orecchie.
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Perché? Perché mi sono nate subito molte domande e così tanta attrazione? Come mai un sacerdote incuriosiva uno come me, che non aveva più a che fare con chiesa e fede da un pezzo? È molto interessante scoprire che le parole sapere e sapore hanno la stessa etimologia. C’è una conoscenza che, se è reale, dona il potere di contagiare la vita altrui. È la conoscenza del Signore Gesù. Essa ti introduce in un mondo non tuo e in una sapienza che non è di questo mondo. Il vero discepolo è colui che ha fatto questa conoscenza, perché ne ha fatto esperienza. Proprio per questo, “il discepolo amato” dice nell’incipit della sua 1a lettera: quello che era fin da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo visto con in nostri occhi, quello che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, … (1Gv 1,1).
Così come “si sente” il sapore (sale) di un discepolo, così se ne può sentire anche la sua insipidezza o insipienza: ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato? Il mio professore di esegesi neotestamentaria mise in crisi tutti noi studenti quando, su questa pericope, ci domandò improvvisamente: “ma il sale, può davvero perdere il suo sapore?”. Alludeva al fatto che chimicamente questo è impossibile, altrimenti non è più il sale, non ha più la sua identità. Dunque il Signore ricorre a un paradosso, come sempre, per cercare di trasmettere un messaggio ben preciso. Il discepolo sia attento a curare ed approfondire sempre di più la sua identità, ovvero di scoprire cosa Dio ha fatto di lui chiamandolo alla vita nuova in Cristo, se non vuol incappare nella cosa peggiore che gli possa capitare. Che non è il peccato, e nemmeno tante disgrazie che ci immaginiamo nel nostro pessimismo. La cosa peggiore è perdere la nostra identità cristiana che abbiamo visto declinata nelle Beatitudini di domenica scorsa. Se non mi ritrovo infatti in quella via, non sono cristiano, per quanto possa apparire tale o mi dia da fare per dimostrarlo. Del resto, sembra ci sia solo un caso in cui il sale può perdere il suo sapore: è il caso del sale “impuro”, quello con gli additivi. Se lasciato con questi, alla lunga perde la sua capacità di insaporire. Fuori metafora: il discepolo verifichi sempre la sua identità alla luce delle Beatitudini e si guardi dal vivere un vangelo adulterato, altrimenti prima o poi la sua doppiezza verrà a galla.
Paradossale è anche l’eventualità (impossibile) di qualcuno che decidesse di porre una lampada sotto un recipiente: non ha senso, nessuno lo farebbe. Così come è impossibile che una città costruita su un monte si renda invisibile. Perché il Signore ci parla così anche a proposito del nostro essere luce? C’è in ballo sempre la questione dell’identità. La luce della fede che si è accesa nella nostra vita, per sua natura, come la luce naturale, é diffusiva. È fatta per illuminare tutto ciò che la circonda, diversamente non è luce. Così un cristiano. Ha ricevuto una vita che non può essere né trattenuta, né vissuta in forma privata. Ha ricevuto in dono una vita che solo se regalata si può vedere. Ha ricevuto qualcosa che risplende in un mondo di tenebre, davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli. Se il discepolo è ben agganciato al suo Signore, le sue opere “parlano” anche agli uomini che non sono in casa (la chiesa), poiché quello che uno è, parla più di quello che dice. Perciò Francesco d’Assisi parlò anche al Sultano di Egitto, Madre Teresa all’autorità del comune di Calcutta e ai potenti del mondo, Charles de Foucald al popolo Tuareg nel deserto del Sahara, il venerabile card. Francois Nguyen Van Thuan ai suoi carcerieri in Vietnam.
AUTORE: d. Giacomo Falco Brini
FONTE: PREDICATELO SUI TETTI