don Giacomo Falco Brini – Commento al Vangelo di domenica 20 Novembre 2022

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Si salvi chi può -, gridiamo, quando ci troviamo di fronte a un pericolo di morte. Ci accompagna sin dalla nascita, nel profondo, il bisogno di salvarci. Non è il semplice istinto di sopravvivenza. Come uomini avvertiamo la nostra mortalità, la finitezza della vita, ma vorremmo anche vivere sempre. Faremmo di tutto pur di salvare la nostra vita, questo è molto umano.

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Ma che significa salvarsi? Cosa vuol dire salvare la propria vita? Significa forse evitare la morte finché si può? Può l’uomo “saltare” la morte? Salva te stesso -, gridarono quel giorno i capi di Israele: se tu sei il Cristo di Dio – e i soldati di Roma, facendogli eco: se tu sei il Re dei Giudei (Lc 23,35-37). Il grido deridente dei rappresentanti del potere religioso e politico sembrerebbe identificare la salvezza come qualcosa di raggiungibile con la semplice capacità di liberarsi dalla morte certa di cui sono dotati i potenti. Come se dicessero: caro Gesù, se la tua identità è quella di un messia o di un re, non è possibile che tu finisca così miseramente. Un messia e un re hanno il potere di farla franca, è gente che sa sempre come cadere in piedi. Fosse anche stato reale questo potere, avrebbe allontanato per sempre l’esperienza della morte?

Quell’uomo però rimase appeso alla croce, e non cercò di salvarsi dalla morte. Pertanto, per giudei e romani, era solo un ridicolo ciarlatano. Lì sopra, essi non videro altro che l’inganno di un uomo spacciatosi per messia e re venire a galla. Ignoravano la conoscenza che proviene da quella croce, poiché nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha potuta conoscere; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della Gloria – afferma S. Paolo (cfr.1Cor 2,8).

C’erano due malfattori appesi ad una croce insieme a Lui. Uno di essi si unì al ritornello del coro dei potenti, coro di insulti e di disprezzo, ma con una variante in tema: salva anche noi (Lc 23,39). Simbolo di ogni uomo che, pur nella condizione di abbeverarsi a quella misteriosa conoscenza, cioè immersi nel dolore, attaccati strenuamente alla propria vita, si chiudono nel proprio egoismo. Perché davanti al dolore e alla morte, l’uomo si chiude o si apre ad un sapere che non è di questo mondo. Dimas, l’altro malfattore, ne fu testimone oculare. Non rinunciò ad osservare quanto accadeva lì giù. Stare sulla croce non lo fece ripiegare su sé stesso. Non si capacitava di tutto quell’odio che si abbatteva su Gesù. Non se lo spiegava. Per questo osservava, e per questo cominciò a vedere a fianco a sé non un ciarlatano, ma la libertà sovrana di un re.

Dimas udì improvvisamente il grido straziante, aggressivo, dell’altro malfattore. Come poteva prendersela con Gesù? Non condivideva insieme a loro la stessa terribile sorte? Come poteva essere così stolto da insultarlo? Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? – gli urlava dall’altro lato della croce di Cristo (Lc 23,40). “Non hai ancora capito perché tu ed io siamo qui? Siamo qui per le nostre colpe, per quello che abbiamo fatto. Ma questo Gesù non è colpevole, non ha fatto nulla di male, lui non dovrebbe essere qui con noi”.

Un barlume di speranza si affacciò nel suo cuore. Dimas guardò il Signore e con audace fiducia gli disse: Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. Un condannato abbandonato, senza più difese, vide una cosa che occhio mai vide e subito dopo udì una cosa che orecchio mai udì (cfr.1Cor 2,9): in verità ti dico – gli disse Gesù – oggi, sarai con me nel Paradiso (Lc 23, 43).

Dimas, “il buon ladrone” che non scaricò la sua colpa né voleva evitare la morte, avvocato sulla croce in difesa di nostro Signore Gesù Cristo, fece cadere l’ultimo velo presente sul suo volto: quel Re si prese addosso la sua colpa. Quel Re lo avrebbe portato subito nel suo regno. Quel Re aveva una colpa, e ce l’ha anche oggi: quella di amarci fino a prendere su di sé le nostre colpe. La salvezza della nostra vita esiste, ma non consiste nell’evitare la morte: è lasciarsi amare da un Re in croce, colpevole di amore.


AUTORE: d. Giacomo Falco Brini
FONTE: PREDICATELO SUI TETTI